“Una commedia in quattro atti”, questo il sottotitolo della pièce Il giardino dei ciliegi, di Anton Cechov, che ha inaugurato la stagione 2016/2017 dello Stabile di Torino al Teatro Carignano, nell’allestimento diretto da Valter Malosti.
Quattro atti durante i quali sembra che succeda nulla, dove l’elemento centrale è il fluire inesorabile del tempo; eppure, come in una sinfonia, tutto segue una precisa partitura, pur essendo ciascun personaggio diverso dall’altro, ma tutti “campioni di umanità”, che in un’apparente immobilità, procedono in una direzione sconosciuta, sapendo però che qualcosa sta per accadere…
Una delle prime intuizioni il regista l’ha avuta riguardo il personaggio di Firs (Piero Nuti), custode della casa, pronto ad accogliere coloro che tornano ad abitarla: è lui ad aprire e chiudere tutti gli atti e ogni suo ingresso o anche solo passaggio in scena sottolinea con didascalica evidenza l’onniscienza del personaggio e l’esperienza e la voglia di mettersi (ancora) in gioco dell’attore (come quando all’inizio del terzo atto si esibisce in un assolo di tango, semplice ma a dir poco stupefacente).
Nella visione di Malosti l’impianto scenografico, messo a punto da Gregorio Zurla, non risulta complesso, ma – nella evidente attenzione rivolta ai dettagli – sicuramente alquanto elaborato, quasi a sostituirsi a quel giardino dei ciliegi che i protagonisti della pièce si limitano a osservare da lontano, evocandolo nei propri ricordi. Inoltre, a partire dal terzo atto, una monumentale testa di Lenin “invade” il fondo della scena, segno della presenza della Storia, nell’attesa di un ineluttabile cambiamento.
La recitazione dei protagonisti tende al vaudeville e crea un’atmosfera limpida e vitale. Elena Bucci (Ljubov’) e Natalino Balasso (Gaev) sono una credibile coppia di padroni di casa, dalla convincente presenza scenica: lei, segnata dalla vita (con le mani forse eccessivamente “bucate”) offre un personaggio nostalgico, quasi una Norma Desmond sul “viale del tramonto”; lui mostra un atteggiamento distaccato nei confronti del mondo, con il quale entra in marcata sintonia solo quando si lascia andare a stravaganti, seppur profondi, ragionamenti.
Varja, (Roberta Lanave), figlia adottiva di Ljubov’ e governante della casa, è una donna pragmatica, colei che “tiene le chiavi”; lei vorrebbe sposare Lopachin (Fausto Russo Alesi), imprenditore arricchito, nato in una famiglia di servi (proiettato verso il futuro, ma forse ancora troppo legato ai ricordi del passato), lui però è troppo impegnato a cercare di salvare il destino del giardino, della tenuta e di coloro che la occupano, per accorgersi di lei; al punto che diventerà il nuovo proprietario di ogni cosa e solamente allora mostrerà il suo interesse per qualcun altro.
Giovanni Anzaldo conferisce al personaggio di Trofimov (l’eterno studente universitario che vive inseguendo ideali di cambiamento - neanche troppo lontani – e si crede al di sopra dell’amore) una veemenza fin troppo evidente anche nella gestualità, non solo nell’esposizione delle proprie idee. Prova una marcata tenerezza nei confronti di Anja (Federica Dordei, ancora allieva presso la Scuola per attori dello Stabile di Torino), che però non basta a persuaderlo a credere con maggiore convinzione nell’amore.
Gaetano Colella, Camilla Nigro, Eva Robin’s, Roberto Abbiati, Jacopo Squizzato e Alessandro Conti completano un cast che ha saputo onorevolmente dare voce alle istanze di Cechov, sempre attuali, anche dopo 104 anni.