Macerata, teatro Lauro Rossi, “Il gioco dei Potenti”, conferenza-dibattito con Massimo Cacciari
IL DRAMMA NASCE DALL'INCAPACITA' DI SUPERARE I LIMITI ONTOLOGICI DELL'ESSERE MORTALI
La conferenza inaugurale si riferisce al tema conduttore del Festival. Massimo Cacciari ha indagato con chiarezza ed estrema lucidità paradossi e contraddizioni del termine “potere”, anche alla luce di contestualizzarlo nel dramma europeo, partendo dall'etimologia del vocabolo, che contiene una radice diffusa in tutte le lingue indoeuropee, “pot”, da cui derivano i termini potestas e possum.
La radice “pot” esprime il significato di possedere, essere padrone nei confronti di qualcosa, disponendone perfettamente. Ciò succede non quando si ha semplicemente a disposizione, bensì quando si ha la capacità di far fare. Non è, insomma, un concetto statico, ma dinamico, nel senso di portare a compimento qualcosa perfettamente (κραειν, κρατος per i greci, perficere per i latini), quando io porto a compimento la mia intenzione: da κραειν, fare, deriva anche καρ, testa (il potente per i greci è colui che fa fare con un cenno del capo). Ma come si fa ad essere potente, a fare eseguire perfettamente qualcosa?
I termini “potere” e “sapere” sono indisgiungibili: per potere debbo conoscere, cioè debbo sapere. Questo distingue κρατος (colui che sa, che conosce perfettamente e quindi può) dalla semplice βια (violenza muta), perchè κρατος sa come comandare. Il concetto è perfettamente esemplificato nel Prometeo eschileo: κρατος ha λογος, cioè parla, ed è accompagnato da βια che tace, muta. L'indisgiungibilità tra potere e sapere si vede anche nella radice di γιγνομαι (fare, nascere), comune a γιγνωσκω (conosco). E si ritrova anche nell'idea di onnipotenza divina, come è rappresentata nella tradizione giudaico-cristiana: Spinoza parlava di Dio come dell'essenza in grado di realizzare perfettamente tutto quello che pensa. Ma noi mortali possiamo disporre di questo “potere” distinguendolo dal mero e banale “possesso”?
Il potere dei mortali non è il κρατος di Zeus ma è piuttosto δυναμις (potenza), mai in atto nella completezza di κρατος, ma sempre in possibile, potenza in-potenza. La possibilità e, al tempo stesso, la nostalgia di quel potere (potenza im-potenza), immagine e somiglianza di quell'onnipotenza, una potenza di potere, una possibilità: questo è il dramma, perchè non si possono superare i limiti ontologici dell'essere mortale, altrimenti sopravviene la υβρις, la pre-potenza, il credere di essere potente, che è il peccato di υβρις, causa del naufragio.
Il dramma ha a che fare sempre con la politica, dall'epoca greca antica a Brecht, e genera contraddizioni e paradossi. A cominciare dall'obbedienza, potestas obbedientialis, che non può mai essere passiva. Infatti ad ogni comando corrisponde il potere di obbedire, una soggettività altrettanto presente del comando, niente di passivo, come bene ha specificato la sociologia del potere. L'obbedienza in ogni momento può trasformarsi in resistenza; per questo il potere deve ascoltare e, in qualche modo, obbedire, creando una complicità immanente tra la potenza che “comanda” e la potenza che “obbedisce” (ob-audire, che ascolta). E la complicità tra potere e obbedire è fondamentale per comprendere il grande dramma europeo. Machiavelli sosteneva che per conservare il potere bisognava trasformare il proprio stato. Ma come si fa a conservare il potere, trasformandolo?
La potestas autentica deriva da possidere (avere pieno possesso), ma deve anche essere sempre auctoritas, esercitata da uno che fa crescere la civitas augescens, un augustus, colui che induce progressi, aumenti continui e costanti. Il potere politico di solito è distinto dall'auctoritas, in genere sacerdotale. Ad esempio nei drammi romani di Shakespeare si mostra come questa sintesi di potestas e auctoritas sia impossibile e su questa contraddizione ha fatto leva il cristianesimo: i cristiani dicevano all'imperatore “tu hai potestas ma non hai auctoritas su di noi”. La potestas spetta allo stato, mentre Dio è la capacità di farlo sviluppare verso un fine escatologico.
Il ruolo del filosofo, del saggio, accanto al potente, è quello di mettere ordine nei concetti. La filosofia deve dire il reale con massima concretezza, dice ciò che è la cosa nella sua essenza, è fenomenologia, esprime il significato dei termini.
Invece lo “stato” è un participio passato, nomen omen: ciò che è stato, ma “ciò che è stato” creperà se non è in permanente rivoluzione. Il dramma europeo è lo specchio dove con spietato realismo questi problemi vengono rappresentati. Fonte di ispirazione è la contraddittorietà del potere, come anche la vita del politico, anzi sistole e diastole della vita del politico, che si ripetono e non hanno soluzione.
Nel Macbeth lo sguardo di Shakespeare è raggelante, la violenza è inevitabile: quando entri nel gioco politico non puoi più uscire dal complotto, il gioco politico è una prigione, non se ne può entrare ed uscire a proprio piacimento. Max Weber parlava di potenze demoniache, infernali, con cui hai a che fare. L'essenza di Macbeth è che “un uomo che non ha ucciso è una vergine”, in senso biblico, perchè bisogna mettere in gioco la propria vita (ma Lady Macbeth non può in prima persona e fa eseguire tramite un mezzo, che le è carissimo, ma ama il marito in quanto “mezzo”, una mediazione vissuta in tutta la sua drammaticità e complessità).
Hegel, nella filosofia del diritto, parla di uccidere gratuitamente per “potere”, cioè per essere riconosciuto come “potente”, colui che ha potere.
Amleto lo ha capito perfettamente, ha capito che, una volta entrato nel play, nel plot, nel complotto, non può più uscirne, lui che è uno studioso, che non ha ambizioni politiche, che vorrebbe uscirne. Lo afferma costantemente, tanto da costituire una colossale critica del politico, ma è un animale politico suo malgrado. È impossibile uscirne perchè “uscire” da questo gioco significa amare (in una spiegazione del dramma Amleto anela un impossibile cristianesimo, coma anche Antigone è nata per amare).
Il dramma europeo nasce da questa prospettiva come utopia e “La tempesta” è una conclusione autoironica, leggera, a cui Shakespeare per primo non crede.
Il grande teatro europeo rappresenta perfettamente i paradossi del potere, come nessuna filosofia, delineando uno spazio che non potrà mai essere occupato. E ciò ne costituisce il valore.
Teatro gremito, il pubblico ha seguito attentamente, poi ha partecipato al breve dibattito che ne è seguito e che ha coinvolto anche il direttore artistico Pier Luigi Pizzi. Tanti, meritati applausi.
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 26 luglio 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Lauro Rossi
di Macerata
(MC)