Musical e varietà
IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Un Giudizio Universale che ci condanna alla noia

Un Giudizio Universale che ci condanna alla noia

Portare in scena l’adattamento teatrale di quello che fu un capolavoro del cinema italiano non era cosa facile. Quale strada scegliere perché la gente non ravvisasse ne il “Giudizio Universale” versione scenica quello che il film diretto ed interpretato da De Sica e sceneggiato straordinariamente dal grande Cesare Zavattini non avesse già abbondantemente detto, ed in maniera così egregia?
Si è pensato al musical, ma anche alla commedia brillante italiana, oppure al dramma a sfondo sociale, o, ancora, una commistione tra cinema, teatro e generi vari. Ma tutto sarà sembrato estremamente banale ad Armando Pugliese, autore dell’impresa, ed ecco che il colpo di genio è arrivato: si è scelta la strada della noia.
Per ben annoiare il pubblico gli ingredienti sono stati scelti con cura e senza badare a spese.
150 minuti ed oltre di scene mal scritte, battute gettate lì senza cura, movimenti scenici approssimativi, scenografie brutte, e 50, dico 50, attori in scena, che sul manifesto pubblicitario (che, forse per spiazzare il pubblico, definisce lo spettacolo come “il più divertente”) ci si cura di elencare differenziando ditta da sottoditta, partecipazioni straordinarie da partecipazioni semplici, utilizzando misure millimetriche per sottolineare l’importanza degli uni verso gli altri, quasi si trattasse di un avanspettacolo del salone Margherita di 70 anni fa, e lasciandone fuori una buona metà, ma tutti con la straordinaria consegna, portata puntualmente a compimento, di annoiare il pubblico.
In sala, allo spegnimento delle luci, lo spettacolo ha inizio ed ecco che dopo aver assistito ai primi 10 minuti la sorpresa per il pubblico è d’obbligo: il divertimento latita almeno quanto la recitazione degli attori.
Nessun divertimento, nessuna suspense, nessuna atmosfera, il musical si riduce a quattro o cinque momenti musicali di raro imbarazzo, non per la qualità delle melodie ben arrangiate (evidentemente non ha seguito le indicazioni del regista) da Paolo Coletta, ma per l’assoluta incongruenza con lo spettacolo, imbarazzo che sale ai limiti del sublime con un “Kyrie eleison” cantato da tutto il cast.
Bravi tutti, insomma, nell’aver saputo omogeneamente contribuire alla noia imperante in tutti i 150 minuti, al culmine dei quali si spera che davvero il giudizio, anzi il diluvio, universale arrivi, inabissando tutti, noi compresi, complici di questo abominio, in quanto resistenti in sala.
Purtroppo qualcosa non funziona, Imma Villa, per esempio, non riesce ad essere piatta ed insignificante come la maggioranza dei suoi colleghi, ed anche Ernesto Lama non riesce a tenere a bada i suoi guizzi artistici, ma per fortuna a sostenere il tutto ci sono Antonio Milo “nel ruolo che fu di Alberto Sordi” (così lo ha annunciato il telegiornale di raitre) che ha il merito di far apprezzare, anche ai suoi detrattori storici, la grandiosità di Albertone, e Mimmo Esposito che interpreta, unificati nel ruolo di Salvatore Speranza, più di un personaggio del film facendoceli rimpiangere tutti. Sugli altri, come dice una famosa canzone, “meglio non dire”.
Tanta esteriorità, prosopopea, e spreco di denaro e di energie per un risultato tanto imbarazzante sarebbe da guinnes dei primati, e forse potrebbe far sorridere, se non irritasse tanto. L’operazione risulta volgare ed inutile, a cominciare dalle griffe esibite nel manifesto, quali quella di Giuliano – Negramaro -  Sangiorgi per le musiche e Francesco Pannofino per la voce fuori campo: il tutto ricorda certi capi firmati dagli stilisti in vendita nei grandi magazzini. Ancora una volta, dopo “’O scarfalietto”, “Uomo e Galantuomo” e “Napoli chi resta e chi parte”, impariamo dalla premiata ditta Komiko-Pugliese che al peggio non c’è mai fine.

Visto il 21-11-2011
al Augusteo di Napoli (NA)