Alla Fenice va riconosciuto il merito di proporre regolarmente musica contemporanea ed ora in chiusura di stagione è in scena in prima assoluta un'opera commissionata dallo stesso teatro al compositore veneziano Claudio Ambrosini, autore di musica e libretto, che ha elaborato un "ludodramma" in collaborazione con lo scrittore francese Daniel Pennac.
La storia racconta di un poeta fallito che, per sopravvivere, deve aggiornare un dizionario ed eliminare parole in disuso per inserirne di nuove. Ma l'uomo è talmente sensibile e sognatore che non riesce a "uccidere le parole" e, perso l'incarico, lo ritroviamo venticinque anni dopo con il compito di registrare idiomi in via di estinzione prima dell'avvento della "lingua unica".
Impresa ciclopica quanto inutile, come rivelerà alla fine la moglie, spregiudicata donna in carriera che al fascino delle parole ha preferito il potere dei numeri, in quanto in tutti questi anni ha inciso tutto sullo stesso nastro. Il killer, nei pochi minuti che rimangono prima del countdown finale, chiama a raccolta gli ultimi parlanti e li invita a registrare un ultimo messaggio in cui si affastellano vari e incomprensibili idiomi, mentre la moglie brinda cinicamente all'avvento di un mondo "univoco, vuoto e felice".
L'opera è divisa in due parti, diversamente caratterizzate a livello scenico e drammaturgico, e la regia di Francesco Micheli coglie ogni sfumatura, sottolineando con gesti e atteggiamenti quanto espresso da parola e musica.
Nella prima parte la scena di Nicolas Bovey vede l'interno di un cubo dalle pareti bianche che ruota incastonato in una scena nera, una scatola in cui vive il killer di parole con fogli attaccati alle pareti che cadono come foglie morte, ma continuano a volteggiare in aria con moto centrifugo seguendo il ruotare del cubo. Nella scatola irrompono gli altri personaggi che si contrappongono al protagonista come maschere della commedia dell'arte: una moglie elegante ed aggressiva, la giornalista rampante e atteggiata, il collega opportunista e seduttore, ma anche la parola uccisa, una donna malinconica bianco vestita che appare in sogno come un fantasma. L'interno si tinge di colori vivaci in sintonia con la situazione drammatica (efficace il light–design di Fulvio Barettin) fino a divenire rosso sangue dopo che il poeta avrà inciso la sua dolorosa "K" sulle facce del cubo.
La seconda parte, se pur ricca di invenzione musicale, è meno interessante dal punto di vista drammatico in quanto prevalentemente incentrata sull'invenzione ritmica affidata ai racconti degli ultimi parlanti che in abiti fantasiosi e orientaleggianti (costumi di Carlos Tieppo) si succedono sul palco di una sala di registrazione affollata di ponteggi e strumenti di registrazione obsoleti.
Il bellissimo libretto è un divertissement sul linguaggio, nonché una riflessione profonda sulle parole e sulle lingue, in una progressione di tensione propria di un dramma con finale a sorpresa.
L'opera è ricca di spunti ("le parole sono la pelle delle idee") e poesia, come quando il killer deve uccidere la parola "galaverna" e dopo averla pronunciata inizia un interludio orchestrale che ne traduce con grande suggestione le proprietà cristalline e per un attimo tutti i personaggi si fermano come ipnotizzati dalla magia di un patrimonio millenario di musica e poesia in via di estinzione.
Si sorride per il gioco musicale che mescola fonemi, onomatopee, ninnananne e borbottii infantili e, se pur con amarezza, si ride di un mondo che insegue meccanicamente numeri e omologazione. E non possiamo che amare il killer di parole, eroe idealista e perdente, che inneggia a una diversità linguistica (ma non solo), rivolgendosi alla nostra memoria storica per metterci in guardia da una globalizzazione intesa come impoverimento culturale.
Una parola da salvare, "aiòue" (ovvero aiuole in dialetto veneziano) ritorna ciclicamente nell'opera, ninnananna tutta vocalica per addormentare il figlio con dolcezza, ma anche combinazione di fonemi di forte musicalità che si riconosce nelle lingue incomprensibili degli ultimi parlanti ed in particolare nel coro finale cantato all'unisono.
Dal punto di vista musicale l'opera offre sonorità raffinate e affascinanti in cui si ravvisano, ma rielaborati da uno stile personale, spunti della musica classica occidentali ed echi di sonorità esotiche per esprimere un'universalità primordiale di musica e linguaggio.
Un cast di specialisti del repertorio contemporaneo ha contribuito alla riuscita musicale.
Intenso e malinconico il Killer di Roberto Abbondanza, personaggio che non si dimentica in fretta, la cui morbida voce baritonale si piega magnificamente ad un canto estremamente vario e articolato. Nel canto della Moglie, perfettamente interpretata da Sonia Visentin, le agilità sono esasperate per esprimerne tutta la negatività, petulanza e freddezza. Mirko Guadagnini regala chiara voce tenorile al figlio idealista e romantico. I ruoli secondari prevedono personaggi reali e fantastici (se non allegorici) : Valentina Valente si distingue come Parola uccisa/la fotografa/ultima parlante giovane; Gianluca Buratto è il collega e l'ultimo parlante vecchio ed infine Damiana Pinti è la giornalista e l'ultima parlante delle paludi.
Andrea Molino dirige con estremo rigore e attenzione una partitura che richiede massima precisione esecutiva e ne esalta la bellezza timbrica; particolarmente ricche di suggestioni le percussioni.
Una nota di merito all'ottimo coro (preparato da Claudio Marino Moretti ) che commenta come un coro greco l'humanitas del killer e il cinismo degli altri.
Un pubblico non particolarmente numeroso, ma decisamente attento e soprattutto giovane, ha dimostrato grande entusiasmo tributando sentiti applausi a un'opera da vedere, ma anche da leggere.