Treviso, teatro Comunale, “Il maestro di cappella” di Domenico Cimarosa e “La serva padrona” di Giovanni Battista Pergolesi
DUE FARSE MUSICALI
La presa in giro del mondo teatrale e dei suoi personaggi è uno spunto ricorrente in tutta la produzione sette-ottocentesca. Citando i casi più famosi, si va dalla farsetta La Dirindina di Domenico Scarlatti (1715) sino a Le cantatrici villane (1799) di Fioravanti, dalle Convenienze e Inconvenienze teatrali di Donizetti (1827) al Don Bucefalo (1847) di un giovanissimo Cagnoni: il quale, guarda caso, riprendeva proprio i personaggi di Fioravanti dimostrando che, in fondo, nulla da allora era cambiato.
Anche Domenico Cimarosa nel 1786 aveva dato il suo bravo contributo al genere metateatrale, presentando L'impresario in angustie, atto unico che conobbe grande diffusione in tutta Europa. Persino Goethe, nel 1791, ne promosse la rappresentazione in tedesco nel teatro di Weimar da lui diretto. Però Cimarosa aveva scritto in precedenza - però quando, con precisione, non ci è dato sapere - un gustoso pezzo per basso e orchestra, qualcosa a metà tra una cantata comica ed un intermezzo: Il maestro di cappella, che dopo aver riscosso grande fortuna cadde nell'oblio riemergendo dagli archivi solo qualche decennio fa. Ne è protagonista è un concertatore palesemente incapace ma presuntuoso e pieno di sé, che durante una prova d'orchestra si scaglia - senza sapervi porre rimedio - contro le inefficienze della «armonica famiglia» che gli sta davanti. In un caos lessicale e musicale che riesce in scena assai divertente, la cantata presenta un insieme un po' anarchico di recitativi e arie - famosissima "Questo è il passo dei violini" - adattissime per un cantante buffo che voglia mettere in mostra il suo talento.
Occasione colta al volo dal bravissimo Lorenzo Regazzo, che possiede sulla scena - oltre a meriti musicali indubitabili - tutta quella verve e la sottile ironia indispensabili affinché il personaggio risalti in tutta la sua gaglioffa simpatia.
Altro pezzo di ammirevole brevità, eppur di altissima qualità musicale è La serva padrona, l'intermezzo che uscendo dalle costole de Il prigionier superbo - opera seria di Pergolesi presentata a Napoli nel 1733 - divenne in breve modello di perfezione del teatro comico all'italiana. E di conseguenza, prototipo di più o meno riuscite imitazioni tra cui Le devin du village, creata da un filosofo-compositore rispondente al nome di J.J. Rousseau. Qui a tirare le fila di una rapida descrizione di caratteri - la serva furba ed ambiziosa, un padrone un po' babbione - stava ancora Lorenzo Regazzo: Uberto esemplare nella sardonica recitazione e signorile nella linea di canto, piena di ricche sfumature espressive. Al contrario Caterina Di Tonno esibiva una Vespina appena discreta nella resa del personaggio, e vocalmente poco plausibile: troppo tagliente nel suono e povera nella coloratura. E poi fuori luogo appariva certo languore nella furbesca supplica "A Serpina penserete". La parte solo recitata di Vespone era sostenuta con destrezza da Gabriele Ciavarra. Spiace che ci sia stato qualche taglio nei 'da capo'; e nel finale, sia sa, senza il "martellin d'amore" si perde assai in mordente.
Sotto le voci trovava posto il prezioso, prodigioso e vivace ricamo sonoro di una compagine di assoluta eccellenza tecnica, nonché sempre duttile ed elegante, vale a dire I Sonatori de la Gioiosa Marca i quali, va precisato, sono usi ad esibirsi senza direttore - pur se, come qui, a ranghi allargati - senza per questo perdere mai in precisione.
Prendendosi la responsabilità di regia, scene e costumi Guia Buzzi ha messo in piedi due siparietti semplici ma sempre divertenti e garbati, dipanati sotto il segno della spontaneità e di uno spumeggiante umorismo; le luci portavano la firma di Roberto Gritti.
GILBERTO MION
Visto a Treviso, teatro Comunale, l'8.12.10