Tra commedia dell’arte e teatro di ricerca. Tra drammaturgia e regia. Tra ieri e oggi. Questo è “Il malato immaginario, ovvero le Molière imaginaire”, tratto da “Il malato immaginario” di Molière e riadattato dalla regista Teresa Ludovico.
Argante (Augusto Masiello), vittima e carnefice di sé stesso e dei medici, ha bisogno di immaginare di essere malato per sfuggire alla quotidianità. E per occuparsi esclusivamente della sua finta malattia, vuole dare la figlia Angelica (Ilaria Cangialosi), innamorata del maestro di musica (Daniele Lasorsa), in sposa al figlio (Michele Cipriani) del dottore (Paolo Summaria).
Tra Molière e Argante il rapporto è stretto. Il personaggio fu sia scritto che interpretato da Molière, attore-autore che, realmente ammalato, morì, nel 1673, dopo la quarta replica della pièce.
Teatro Kismet OperA (con i suoi bravissimi attori) porta in scena proprio quest’ultima replica ed è Pulcinella (maschera napoletana della commedia dell’arte come quello Scaramouche che Molière conobbe ed amò) a farlo capire nel Prologo (e poi nell’Epilogo) che la Ludovico ha sostituito all’originario classicista molièriano.
Ad interpretarlo c’è Marco Manchisi (attore di levatura, allievo di Leo De Berardinis, fine conoscitore della commedia all’improvviso e di Pulcinella) che in questo spettacolo si fa in tre: oltre la maschera partenopea, è nelle vesti pure della serva Antonietta e di Aldo, fratello di Argante. Incarnazione dell'anima popolare e beffarda i primi due, espressione di un mondo libero e razionale il secondo.
Antonietta, assecondando tutti e contemporaneamente deridendoli, è l’unica che riesce a smorzare i loro eccessi: il malato immaginario, la perfida seconda moglie Checchina (una inquietante e sensuale Serena Brindisi), la romantica Angelica e via dicendo.
I costumi richiamano l’epoca seicentesca e sono affidati a Luigi Spezzacatene che sembra aver diviso i personaggi in base all’umore (bianchi i buoni e/o ingenui: Pulcinella, Antonietta, Aldo, Argante, Angelina, il maestro di musica; neri gli altri: Checchina, il dottore e suo figlio, il notaio, la badessa). Gli unici colori sono le proiezioni di luci sugli schermi laterali e di fondo (sui quali si proiettano anche le ombre degli attori) che completano la messinscena e l’arricchiscono. L’allestimento è, quindi, senza tempo e luogo, come se fosse un mondo minimal chiuso all’interno di una “scatola” che contiene una piramide di palchi sovrapposti, creata da Vincent Longuemare, sulla e nella quale agiscono, appaiono e scompaiono gli attori... sebbene la nota di presentazione parli di << una casa del sud >>.
Si avverte un leggero simbolismo, ma non pesa nella costruzione scenica che è agile e armoniosa, fatta di interessanti movimenti scenici. Uno spazio vissuto tridimensionalmente.
Sopra, Argante. Checchina, dal ruolo ambiguo, travalica in salita e discesa la “scala”. Sotto ci sono gli altri, la serva e la figlia, che a volte salgono i gradini avvinandosi all’uomo, poi il notaio e i dottori. Solo alla fine Argante, scoperta grazie ad Antonietta la verità, rotola giù. E muore. Come Molière.
Sfoltito anche dell’intermezzo-balletto lullyano, le musiche che accompagnano la messinscena sono quelle composte da Nino Rota per la suite “Le Molière imaginaire” (ecco spiegato il titolo dell’allestimento) del coreografo Maurice Béjart del ’76-‘78. Non c’è niente di barocco e anzi sono suadenti e contemporanee.
Uno spettacolo fatto, come voleva Molière, di rapporti tra personaggi e, come deciso dalla Ludovico, da una fluidità di scene che si intersecano l‘una nell’altra, movimenti e controscene; gli attori sono gli artefici del gioco scenico come nella commedia dell’arte, ma usano lo spazio come nell’attuale teatro di ricerca. Non manca l’elemento grottesco.
La regia di Teresa Ludovico è un frizzante ed affascinante insieme di invenzioni che mantengono l’attenzione sempre viva. Divertente e pieno di energia, benchè volutamente non tradizionale, è godibile e interessante.