Il patofobo è anche un sadico che ricatta i familiari, gli amici e medici curanti costringendoli a convivere con le stesse ossessioni di cui è vittima? Da quando “Il malato immaginario” domina le scene, i più grandi interpreti, compreso Molière che, ironia della sorte, morì proprio nei panni di Argante, hanno dispensato al pubblico farsa e humor noir in dosi diverse.
E la difficoltà è tutta qui: nel giusto dosaggio degli ingredienti, nell’equilibrio tra scavo psicologico e satira sociale, in questo caso i medici, esempio di chi esercita un potere incontrastabile e spesso non surrogato da competenza adeguata. La ricetta è messa a punto con successo da Gioele Dix che, per la regia di André Ruth Shammah, sottolinea gli istinti noir del protagonista stesso ma per contrasto anche il suo candore, il suo essere assolutamente indifeso e ingenuo.
Un classico sempre attuale
Il protagonista torna al testo che interpretò negli anni Ottanta con regia di Franco Parenti e dimostra di aver fatto tesoro della lezione del maestro, che allora spiava nei panni di un altro personaggio, Cleante, spasimante di Angelica. Lo sfondo rievoca quello costruito nella prima edizione da Maurizio Ferrari: minimalista e d’impatto al tempo stesso, sovrastato da tre lampadari che evocano la sontuosità della casa di Argan, e scandito dalla sua sedia a rotelle, il tavolino delle medicine, le sedie nere.Gli attori si muovono con scioltezza, alternando macchiettismo e realismo lungo linee che il protagonista spezza e ricompone. Applausi per Gioele Dix e per la cameriera Tonia, Anna della Rosa, impegnata in costante duetto con lui, ma tutta la compagnia nel suo complesso è all’altezza di un classico sempre attuale. La bella traduzione di Cesare Garboli, agile moderna nel rispetto dell’esprit molieriano, è d’aiuto in un allestimento che, alla fine, punta più sul sorriso che sulle inquietudini. Poca musica, diversamente da quanto accade in altre versioni più operettistiche degli spettacoli che allietavano e qualche volta indispettivano la corte di Luigi XIV. Ma l’armonia non fa difetto.