Prosa
IL MALATO IMMAGINARIO

IL MALATO DI SAMUEL BECKETT

IL MALATO DI SAMUEL BECKETT

Gabriele Lavia, negli appunti di regia contenuti nel programma di sala, sottolinea l'ambiguità del titolo, chiedendosi se sia la storia di un Malato (soggetto) immaginario (predicato) oppure di un malato (predicato) Immaginario (soggetto). In fondo, basta spostare l'enfasi su una parola piuttosto che su un'altra e cambia tutto.

La pièce è aperta da Molière in persona in abito barocco. Il levarsi del sipario rivela uno spazio praticamente vuoto, se non per una scrivania in proscenio e un letto sotto una lampada, un letto che rimanda a quelli degli ospedali (psichiatrici), semplici, di ferro, con lenzuola bianche, sotto luce fissa. Il pavimento è una scacchiera regolare che scende in platea con una passerella inclinata. La scena di Alessandro Camera è tutta qui, contenuta dentro pareti di stoffa nere. Con un gabinetto a vista dietro la velatura nera del fondo scena. Tutto porta all'oggi, dai sanitari alle lampade, dalla pistola al magnetofono.
I costumi di Andrea Viotti hanno vaghi riferimenti al Seicento ma, si può tranquillamente dire, sono nella sostanza contemporanei e grondanti divertenti invenzioni. Ottime le luci di Simone De Angelis.

Il testo, nella bella traduzione di Chiara De Marchi, ha numerose interpolazioni con scritti di Samuel Beckett, principalmente tratte dalla Trilogia, precisamente da “Malone muore”. Non è una novità: anni fa Glauco Mauri chiudeva il suo Don Giovanni con un estratto da “Finale di partita”, dove le battute dei protagonisti erano affidate a Don Giovanni e Leporello.
Innegabile che dei paralleli tra Argante e Malone ci sono: Malone è un derelitto (e forse lo è anche Argante), Malone giace su un letto in una stanza vuota aspettando di morire, anzi di “finire” (e certo così sta anche Argante). Ma il mondo di Beckett è davvero altra cosa rispetto a quello di Molière e le continue citazioni minano la continuità della commedia, imponendo un brivido di tristezza e malinconica riflessione.

Con una citazione beckettiana inizia la messa in scena: Argante è seduto al tavolo e affida la cronistoria, la composizione e il costo di purghe e clisteri alla registrazione su nastro, per poi risentirla ossessivamente, come se la realtà fosse tale solo se incisa su nastro. L'ultimo nastro di Krapp.
Il riverbero delle parole di Malone, intese qui come pensieri di Argante, conferiscono una diversa struttura interiore al personaggio, venandolo di incertezze e dolore, di scetticismo e ironia nera tutti novecenteschi. Un Argante beckettiano, insomma.

Gli altri personaggi sono trattati come marionette di un teatro dell'assurdo che ancora richiama l'autore irlandese, a volte con eccessi caricaturali. Tonina (Barbara Begala) scalza come una malata di mente, Belinda (Giulia Galiani) algida e ninfomane, sadomaso nell'abbigliamento, Angelica (Lucia Lavia) bamboleggiante, parla un linguaggio giovanile di segni e gesti (come l'innamorato Cleante – Andrea Macaluso), il dottor Diarreus e il figlio Tommaso gallineggianti (Pietro Biondi e Michele Demaria). Tutti i personaggi maschili, tranne Argante e Cleante, hanno delle enormi epe (vestono pantaloni a vita altissima), hanno le scarpe nere coi tacchi alti colorati, indossano guanti di pelle gialli e vestono di nero: un po' iettatori, un po' grilli parlanti, un po' spettri. Così Beraldo (Gianni De Lellis), Purgone (Mauro Mandolini), Fetus (Vittorio Vannuttelli) e Buonafede (Giorgio Crisafi). Non ho ben compreso la presenza di Pulcinella, che introduce alla chitarra Cleante.
Attori e attrici sono tutti bravi e appropriati ai ruoli, sorprendente la giovane Lucia Lavia.

Quel che poco convince è il finale. Argante, liberato dalla malattia dei medici, non è risanato: in pochi secondi, il tempo di andare in bagno, invecchia di colpo, addirittura la vestaglia è sbiadita e scolorita, la sciarpa bucata e strappata, l'andatura incerta e dondolante, il passo malfermo, la parola quasi balbettante. Al punto che muore. E cadono a terra di colpo di teloni che foderano il palco, rivelando i muri e le attrezzerie del teatro e i protagonisti, immobili.

Teatro gremito, pubblico molto divertito. Applausi sia a scena aperta che nel finale.

Visto il
al Verga di Catania (CT)