Prosa
IL MALATO IMMAGINARIO

La malattia immaginaria nel teatro di Lavia

La malattia immaginaria nel teatro di Lavia

Vive dentro un claustrofobico e lugubre rifugio, arredato da un vecchio letto da ospedale dimesso. Rivela la deprivazione esistenziale in cui incombe la sua follia. Una condizione patologica  trasudata  dalle vertiginose pareti nere  dove rinchiudere l' oscuro inconscio di Argante  popolato da fantasmi e uomini dalle sembianze d’insetti divoratori: sono i dottori in medicina dediti ad alimentare per lucro le ossessioni ipocondriache del malato.  Esiliato dal mondo per sua scelta,  l’unica soluzione per convivere con una lucida follia che lo pervade. Dipendente da diagnosi artificiose e medicamenti dal risultato curativo pari allo zero. Argante alterna come affetto da ciclotimia, momenti di depressione a eccessi euforici, sfidando la morte con esasperati trattamenti invasivi sul suo corpo. Il suo agire svela un’infinita paura di vivere. Non hai mai voluto crescere in realtà. Psicoanaliticamente prigioniero della fase anale mai superata nella sua infanzia; da qui l’origine dell’ossessivo desiderio di essere sottoposto a dolorosi clisteri.

Una fase, secondo il modello di sviluppo a fasi di Freud, collocata a un’età compresa fra i 18 e i 36 mesi. Il bambino prova piacere nella gestione autonoma dei suoi sfinteri e attraverso il piacere delle pulsioni inizia ad acquisire autostima, anche se corre il rischio di provare angoscia e frustrazione collegabili al rapporto individuo/società. Deve assoggettarsi alle regole e norme di autocontrollo imposte dall’educazione dei genitori. L'incapacità di risolvere i conflitti in questa fase può portare allo sviluppo di una fissazione. Argante sembra affetto da questa irrisolta fase. Privo com’è di autostima, si trova nelle condizioni di subire una società dedita ad esercitare il potere e il suo degrado si specchia nella malasanità  presentificata da un cinico stuolo di dottori “scarafaggi” che gli ronzano intorno. I costumi appropriati e fantasiosi sono di Andrea Viotti.
Gabriele Lavia fa suo il testo e sceglie un Argante iper intellettuale diversamente malato da com’è descritto nel testo originale. Si rifugia in un mondo autistico, dove l’unico amico fedele cui confessare il cronico malessere è un magnetofono che ripete all’infinito la sua voce. Prende a prestito dalla drammaturgia di Beckett versi da "Malone muore", costruendo una sorta di collage recitativo dove è evidente l’omaggio a "L’ultimo nastro di Krapp". Chiama invano la sua serva padrona con un campanello che non puo’ suonare. Sottile metafora per spiegare come è difficile farsi sentire nella vita. Nell’economia dello spettacolo la scelta pensata da Lavia di avvalersi del contributo beckettiano è  affascinante  ma  rischia di dilatare l'organicità  nell' insieme complessivo del lavoro, pur riconoscendo al regista una soluzione innovativa nel far convivere due autori così diversi tra loro. Il regista – attore si distingue da sempre per generosità nel concedersi sulla scena, una delle doti del suo successo consolidato e unanime nel giudizio collettivo. In quest’ultimo lavoro si percepisce la ricerca analitica nell’affrontare un testo del ‘600 per ricondurlo in un ambito novecentesco grazie anche a indovinate intuizioni drammaturgiche, scorporando temi esistenziali e sociali sempre più attuali da quella che è la commedia vera e propria.

C’è però la sensazione che si tenda in alcuni passaggi a voler aggiungere troppo. Argante-Lavia è un uomo partecipe fin tanto da essere atletico, quasi esuberante come nella  sua gestualità al cospetto della figlia Angelica (Lucia Lavia), figlia anche nella vita, dalle promettenti e sicure doti di attrice, una via di mezzo tra una Barbie e una popstar americana, e del suo spasimante Cleante (Andrea Macaluso) un giovane anoressico componente di una band di musica Metal. Lui, Lavia non si da mai tregua, affronta a piene mani come un cavaliere solitario con  la lancia in resta i suoi nemici. I medici rappresentano un dualismo fatto di amore e odio, non puo' e non vuole farne a meno. Riuscita la scelta di creare grottescamente degli uomini dalle sembianze d’insetti panciuti, dalle voci stridule, esseri striscianti pronti a succhiare la linfa vitale del malato/ vittima. Circolano sulla scena su tacchi colorati che rendono a pieno la vena farsesca dei loro personaggi. Sono Pietro Biondi il dottor Diarreus, (con una cresta di gallo in testa) Michele De Maria nei panni di Tommaso Diarreus, figlio (risulta il più bravo di tutti per il suo strepitoso gesticolare nevrotico affetto da convulsivi tic), Mauro Mandolini è il professor Purgone, Vittorio Vannutelli nella parte dei dottor Fetus.  Tutti egualmente bravi nel caratterizzare i profili surreali che la regia richiede. Argante può  fidarsi solo di una figlia sinceramente affezionata. La scena del finto decesso del padre è rappresentata diversamente da com’è stata scritta da Molière.

Lavia sceglie di far recitare al personaggio della figlia un falso dolore istruita dalla cameriera Antonietta, l’attrice Barbara Begala alla quale è chiesto di  dare vita ad una donna “selvaggia”, indomabile che lavora a piedi nudi nella stanza del suo padrone. L'attrice tende a imporsi con una recitazione molto sostenuta. Di chi non si puo’ fidare Argante, è la seconda moglie Belinda interpretata da Giulia Galiani, una donna scaltra e subdola. Nel cast figurano anche Gianni De Lellis (il fratello Beraldo), e Giorgio Crisafi (il notaio Buonafede). Nell’insieme si assiste a un Malato immaginario ricco di spunti cui è richiesta la massima partecipazione e concentrazione per le tre ore complessive di spettacolo (comprensive dell’intervallo), alleviato da un piacevole inserto canoro diviso tra un Pulcinella e Cleante dotati di ottime doti canore. La parte scenografica realizzata da Alessandro Camera è congeniale a quanto pensato da Lavia. Un pavimento a scacchi per spiegare che la vita si gioca come in una partita. Dietro un fondale nero s’illumina il bagno con i sanitari che tutti noi possediamo nelle nostre case, dove Argante mostra in pubblico l’atto della deiezione e lavaggio conseguente, non senza aver controllato nella tazza del water il risultato, così come fa quel bambino studiato da Freud, il quale prova interesse e piacere per i propri escrementi tanto da considerarli talvolta un dono fatto alla propria madre. La scena finale è tra le più suggestive di tutta questa complessa messa in scena. Argante dopo aver acconsentito alle nozze di sua figlia con Cleante, si ritrova solo e abbandonato al cospetto del fantasma della Morte e chiede invano che qualcuno lo metta a letto. In quel preciso istante cadono i fondali neri e svelano il retropalco, dove appaiono sinistramente tutti i personaggi immobili, quasi pietrificati. Solo allora Argante/Molière potrà congedarsi dal mondo terreno. La finzione e la realtà si confondono per  dirti quanto è illusoria la vita.
 

Visto il 17-12-2010
al Nuovo di Verona (VR)