Prosa
IL MALATO IMMAGINARIO

Mòliere e il moderno 'Mal di vivere'

Mòliere e il moderno 'Mal di vivere'

Il teatro Luigi Pirandello di Agrigento riceve gli spettatori a sipario aperto: sulla scrivania di Argante c’è un magnetofono, la scena è nera e profonda ma si allunga anche fin quasi fra le sedie della platea. Compare sul palco Il malato immaginario, poi anche Antonietta e ci sembra di ‘vedere’ la drammaturgia di Ionesco, de ‘Il re muore’. Gabriele Lavia detta i suoi malanni ad un vecchio registratore e poi si risente, si risente ‘Malone muore’ di Beckett. Le concezioni del Nuovo Teatro, la riconsiderazione della drammaturgia tradizionale, l’emergere del sentimento dell’assurdo e la constatazione dell’impossibilità della comunicazione tra gli esseri, in mancanza di un linguaggio portatore di senso, incontrano il più classico dei testi di Jean-Baptiste Poquelin, in arte Mòliere.
Ne nasce una rappresentazione geniale che riesce ad andare anche oltre al teatro dell’assurdo, riesce a investire e a penetrare quasi tutto il malcostume, le immoralità di un’intera società, il male di vivere che, paradossalmente, costringe il malato a cercare la cura invece di cercare la guarigione, condannato in anticipo.
L’Argante/Lavia cerca scampo cercando di accaparrarsi il potere, cercando di far sposare alla figlia un medico, colui che possiede l’autorità più grande: quella di decidere della vita o la morte di ogni uomo. Quell’autorità che benevolmente ti cura ma guai a volersene ribellare. Ben lo sperimenta il malato immaginario quando rimanda fino a rifiutare il clistere depurativo, all’ultimo istante, proprio un attimo prima dell’intervento. E in quel Lavia con le nude terga in vista, pare rispecchiarsi un’intera società, questa, che per giunta sembra incapace di rivoltarsi all’enteroclisma quotidiano.
Ma Argante, sobillato alla rivoluzione dal fratello Beraldo riesce, se non a guarire, almeno ad agire per il giusto, secondo la legge in fondo. Perché desume che la legge va rispettata in quanto giusta, non in quanto legislazione. E si ribella allo stesso autore della commedia, reo di mettere in scena tanto dolore, fisico e morale, e a farsene per giunta beffe. Argante si immagina lui dottore (‘basta un vestito giusto per diventare medico’) e inveisce contro il malato Mòliere fino a volergli far sputare sangue e a vederlo morire.
Chi si aspettava di assistere a una rappresentazione della commedia dell’arte o della commedia di costume, avrà avuto una grande sorpresa. Ma d’altronde chi si può aspettare dal genio e dalla passione di Umberto Lavia una recita tradizionale?
L’attore e regista, pur cercando di rimanere fedele all’autore, ‘tradisce’ la commedia: inventa personaggi caricaturali o iper-reali. Porta in scena dottori simili a gallinacci dominatori e predatori della società-pollaio, una moglie mantide in guepiere e gambe mozzafiato, la figlia e il suo spasimante  dai toni e dalle movenze di rappers, il fratello Beraldo simile al collodiano grillo parlante. Solo la cameriera Antonietta, in abito semplicissimo e a piedi nudi, ha l’aspetto normale dell’assennatezza.
E quando alla fine, sventati gli inganni, Argante si ritrova solo, crollano le scene e tutti i personaggi si stagliano immobili contro le pareti ottocentesche del Pirandello: finito il teatro non resta più nulla.
Grande prova di Gabriele Lavia sia come interprete che come regista e ottime le recitazioni degli attori, di tutti al punto che la citazione diventerebbe la replica dell’intera locandina.
In questa stagione abbiamo contato almeno cinque messe in scena di quest’ultima opera seicentesca, ognuna rivisitata e riadattata. Ci chiediamo se ormai l’originalità della regia di opere classiche non consista proprio… nell’immaginarle e rappresentarle per come sono state scritte e figurate.  Anche se questo allestimento, nonostante l’unico neo della durata superiore alle tre ore,  ci è sembrato un’opera veramente eccellente. Quasi originale.
 

Visto il 07-04-2011
al Pirandello di Agrigento (AG)