Amore e morte, carnefice e vittima, la difficoltà di amare: sono questi alcuni dei traits d’union fra i due atti unici, “Il mandarino meraviglioso” e “ Il castello del duca Barbablù”, presentati a Firenze in coproduzione con il Festival Saito Kinen nell’allestimento affidato al talento del coreografo giapponese Jo Kanamori, al costumista Yuichi Nakashima e a un team internazionale di scenografi (Tsuyoshi Tane, Lina Ghometh, Dan Dorell).
Per la tematica oscena e “ l’orgia” sonora, la pantomima di Bartok, rappresentata per la prima volta nell’allora provinciale Colonia nel 1926, fu un clamoroso insuccesso e l’opera (trasformata successivamente in un vero e proprio balletto) dovette aspettare diversi anni per imporsi sui palcoscenici di tutto il mondo. La vicenda è ambientata nei bassifondi di una grande città e narra di una ragazza costretta da tre malviventi ad adescare i passanti a scopo di rapina fino a che non arriva un ricco mandarino che, nonostante venga ripetutamente ucciso, morrà solo dopo aver fatto l’amore con la ragazza.
Nella scena cupa e spoglia (una grigia caverna con un foro sul fondo), una piramide di ballerini dal volto coperto, vestiti di stracci come fantocci, abbozza nel groviglio di corpi e movimenti sincopati una città trafficata e tentacolare. I tre malviventi, dai vestiti sgargianti e fantasiosi come le maschere del teatro giapponese, dai movimenti continui, rapidi, spezzati e convulsivi, spingono la fanciulla discinta dai corti capelli color platino a ballare sul tavolo. Quando appare il mandarino, perturbante e misterioso, così diverso dagli altri, la ragazza si blocca e arretra, punta i piedi renitente e paurosa. Il mandarino, incapace di sentimenti, è manovrato come una marionetta da un suo doppio, una sorta di ombra o anima, che subisce insieme a lui i vari tentativi di uccisione. Nell’ultimo tentativo, ovvero nella scena dell’impiccagione, i due corpi vengono appesi a un grappolo di bocce luminose che, nel momento della rinascita, si libreranno in tutta la scena per tradurre anche a livello visivo l’esplosione musicale di coro e orchestra. Alla fine il mandarino perde l’ombra, perché con l’amore acquista l’anima e la fanciulla uscirà dal foro sul fondo come alla fine di un tunnel per andare verso una metaforica luce.
Il gioco scenico si concentra intorno al tavolo quadrato laccato di rosso: il palcoscenico, per la danza di seduzione capovolto diventa specchio, posto in piedi si fa paravento e alla fine è il letto per l’amplesso. La coreografia, di grande pulizia formale, dà la chiave di lettura dello spettacolo, dove una gestualità rigorosa dai movimenti di volta in volta guizzanti, spezzati, iterati, febbrili traduce con efficacia con stilemi orientali e danza Butoh, l’universo sonoro di Bartok e le sue tese esplosioni sonore in cui si aprono squarci estatici.
Nei ruoli principali ricordiamo la ragazza interpretata da Sawako Iseki e il Mandarino di Satoshi Nakagawa. Tutti bravissimi i ballerini del Noism e Maggiodanza per stile e coordinazione.
La seconda parte del dittico “Il castello del duca Barbablù”, unica opera lirica di Bartok su libretto del poeta simbolista Béla Balazs, è giocata esclusivamente nel confronto psicologico fra due interlocutori: Barbablù e la sua quarta moglie Judith, che, per inondare il castello di luce, vuole aprirne le porte, ma, avendone violato il segreto, sarà condannata a seguire il destino delle mogli precedenti e Barbablù rimarrà solo per sempre.
Non c’è azione, tutto è risolto a livello interiore e la musica di grande potere visionario traduce ogni emozione e cambiamento di umore, ma anche l’universo visivo associato a ogni porta.
L’opera si apre e si chiude nel buio (visivo e musicale), un cono di luce illumina le movenze rarefatte del bardo che in guisa di prologo ci introduce nella sala del castello, dove servitori muti dal volto coperto si muovono lentamente disegnando nello spazio geometrie arcane con rossi lumini. Sette alte pannellature nere chiudono la scena e le loro superfici opalescenti funzionano di volta in volta come specchi o schermi in cui vediamo rifratti i protagonisti o proiezioni di colore (nel rispetto delle indicazioni cromatiche previste dal libretto) e giochi di ombre. I destini dei due protagonisti s’intrecciano ai movimenti rarefatti dei danzatori spesso presenti in scena a tradurre in guisa di ombre o anime gli stati psicologici: nella scena del giardino Judith sembra danzare e al tempo stesso specchiarsi con l’eterea danzatrice vestita di bianco, il lago di lacrime viene suggerito dalle figure incappucciate e le mogli sono pallide figure ingioiellate sorrette dalle loro ombre. Alla fine i pannelli si chiuderanno formando dei prismi in cui le quattro mogli, Judith compresa, saranno prigioniere come in teche di cristallo e Barbablù sarà condannato al buio eterno della solitudine.
Se dal punto di vista registico la prima parte del dittico è risultata più pertinente e riuscita, l’esecuzione musicale è stata ottima in entrambe per il difficile equilibrio conseguito fra potenza orchestrale e raffinatezza timbrica. Il giovane direttore ungherese Zsolt Hamar offre una lettura ricca di contrasti timbrici e di tensione drammatica volta a sottolineare la componente dissonante, allucinata ed espressionista della musica di Bartok. Nella sua lettura di Barbablù una densa inquietudine avvolge di angoscia anche i momenti più luminosi (il tesoro, il giardino, il regno), in un giro di vite sempre più cupo e notturno e, con l’apertura della quinta porta, davvero in fortissimo, l’esplosione sonora ha una forza tellurica di grande impatto emotivo. Ancora una volta un plauso all’orchestra del Maggio che si riconferma particolarmente adatta al repertorio mitteleuropeo novecentesco.
Daveda Karanas è una Judith intensa, dalla voce luminosa e un settore acuto ben a fuoco capace di reggere lo scarto drammatico dell’aspra tessitura. Mathias Goerne ha voce profonda e una linea vocale composta che ben traduce la malinconia e solitudine di un Barbablù tutt’altro che truce, ma pessimista e consapevole del suo tragico destino.
Applausi calorosi per tutti, con particolare entusiasmo per gli interpreti del Mandarino meraviglioso.