La voce al microfono, nell'augurare una buona serata, fa notare la falce di luna che risplende in cielo. Il Vittoriale ha salutato con il suo volto più suggestivo il ritorno della grande prosa e di un grandissimo interprete. Giorgio Albertazzi ha rinverdito la sua prima volta sul palco dannunziano, 56 anni or sono (come ipotizzato, prima che noi e molti dei presenti fossimo nati) nel ruolo di Aligi ne "La figlia di Iorio", una cui digressione, dopo Shakespeare, ha mandato in visibilio il pubblico.
"Prigione è la mente, che tiene prigioniero il cuore". Quest'ultimo invece ha vagato libero, trasportato dalla brezza nata dalle placide acque del Benaco, aleggiata sul palco a respirare poesia e insufflarla verso la platea. Giorgio Albertazzi non fa teatro: è, il teatro, incarnazione della sua anima palpitante.
In una compagnia junior, innamorata del teatro classico e di un modo classico di fare teatro, il Maestro è risultato il più giovane e fresco. Che importa se ogni tanto il corpo ha cercato l'ausilio di una seduta; la voce, morbida, è corsa tra raffiche di vocaboli come scioglilingua, si è arrestata nelle oasi lessicali per ristorarsi di pause e silenzi, ha passeggiato placida tra le anse dell'eloquio concedendosi reminiscenze toscane, per poi essersi inerpicata con forza sulla struggente liricità shakespeariana. Un approccio intimo, da parte di un amante carnale delle parole.
Giancarlo Marinelli si è registicamente rapportato alla versione innovativa curata dallo stesso Albertazzi, con idee progressiste e modi tradizionali, senza avere osato. Un "piatto" succulento, condito con un pizzico di pepe ma parco in sale. "Il Mercante di Venezia" è opera ambivalente, in bilico tra commedia e tragedia, dove le dicotomie assumono contorni sfumati, equivoci. Il ritmo era scandito da fantasmagorici colori (luci di Luca Palmieri), graffianti sonorità (Andrea Bergamasco), costumi classicomoderni (Daniele Gelsi) mentre un ponticello, unico superstite della scenografia (Paolo Dore) adattata all'anfiteatro, ha diviso/unito amici e amanti, alleati e antagonisti; ha sovrapposto, con bella intuizione, amore e odio, giustizia e sopruso, generosità e avarizia, giovinezza e vecchiaia. Uno "sguardo dal ponte" che ha elevato lo spazio scenico a una dimensione leggera, scompigliata da ventate farsesche (il travestimento da moro di Graziano, Diego Maiello, il rintronato Doge, Gaspare Di Stefano), labili per avere costituito un secondo binario drammaturgico, sovradosate rispetto alla linearità della lettura principale.
Shylock oppresso dall'assioma ebreo = cattivo, cristiano = buono, famelico di positività: la generosità di Antonio (Franco Castellano straordinario, alla sua prima prova a fianco del Maestro con il quale ha gareggiato in intensità), l'esuberanza di Porzia (Stefania Masala, ottimamente padroneggiante i propri mezzi espressivi; peccato i capelli a la garçonne), la fedeltà di Job (Cristina Chinaglia, autentica rivelazione, ispiratasi alla Commedia dell'Arte con un senso della misura da attrice consumata e la spontaneità della verde età: bravissima!), la dinamica gioventù di Bassanio (Francesco Maccarinelli), la spregiudicatezza di Jessica (Ivana Lotito), il romanticismo di Lorenzo (Mario Scerbo), la dolcezza di Nerissa (Vanina Marini), la bellezza delle ancelle/scrigni (Alessandra Scirdi e Erika Puddu).
La libbra di carne, da esigere come penale per l'insolvenza del prestito, era fame di ribellione, voracità di riscatto imprigionata in un climax sospeso (ancora il ponte) che l'usuraio ha risolto chinando il capo su sé stesso con rassegnata fierezza, avendo deciso liberamente, e non per imposizione del Giudice, di accogliere (non subire) la sconfitta. Né vincitore né vinto. Shylock ha accettato con dignità il trionfo dei pregiudizi, dell'antisemitismo, della diversità e si è auto-rinchiuso nel ghetto della propria insanabile solitudine. "Il mondo è un palcoscenico dove ognuno recita la sua parte: la mia è quella di essere triste".