Un muro di bronzo dal motivo sabbioso e di media altezza, fra due alte pareti blu e pochi altri elementi di scena ridotti all'essenziale, accolgono l'ingresso di Antonio e di quella compagnia degli amici che la regia interpreta come “eroi un po’ paesani, creatori di aneddoti più che di leggende": ecco, forse questo ambiente in cui ogni cosa è lì soltanto per una precisa funzione, salta subito agli occhi come una promessa di attenzione da spostare altrove, ed i caratteri e le scelte che verranno infatti lo confermano, pur lasciando molti punti interrogativi non risolti, anziché qualche punto esclamativo.
Questo Mercante di Venezia, che Valerio Binasco ha rielaborato per la Popular Shakespeare Kompany (con la quale si ripromette di produrre un'opera del Bardo ogni anno), offre i suoi lati migliori sotto due aspetti: l'accento sull'antisemitismo che cerca di ptrasformare in uno scontro fra diversi e più universale, anziché fra cristiani contro ebrei, ed una certa qual sospensione nel giudizio fra bene e male, all'interno dei caratteri. Sulla forte attenzione per gli ebrei c'è poco da sorprendersi, per un racconto scritto in un'epoca in cui essi dovevano sovente vestirsi in maniera da essere facilmente identificabili e vivere in ghetti (nell'edizione londinese del 1619, il sottotitolo era «With the Extreame Crueltye of Shylocke the Iewe»), sebbene Shakespeare si sia mantenuto originale rispetto alle trattazioni coeve dell'argomento per non averlo etichettato con un genere preciso (non è una tragedia a causa anche del lieto fine, ma nemmeno certo una commedia, oggi forse si direbbe una commedia noir, piuttosto) e per l'intreccio di storie dai motivi affatto diversi, fra la vicenda della libbra di carne e lo sposalizio di Porzia.
Poiché Binasco sostiene dunque di porsi dal lato di Shylock, a questo va ascritta l'interpretazione (in questo senso, molto efficace, ancorché opinabile) di uno Shylock mesto, assorto in un atteggiamento da antico testamento immanente, portato sulla terra e tradotto con l'etica dell'accumulo e della massima aderenza terrena, sebbene con un incomprensibile accento da mafioso russo nei telefilm americani: il sostegno della regia a questo Shylock sta dunque nel procurare il fastidio per la vittoria e per l'allegria che i vincitori mettono nell'ottenere ragione a loro volta senza pietà, con la stessa imperdonabile presunzione di avere ragione di quella che fino ad un momento prima aveva caratterizzato l'ebreo. È il lato migliore, questo spostamento della morale, che non consente di immedesimarsi in nessuno dei protagonisti, perché nessuno di loro si posiziona dal lato più riconoscibile del bene e del male, e di tratteggiare il problema del conformismo per vedere il protagonista come “un outsider”.
Registrata una bravura comune per i ritmi ed i cambi precisi di scena, ricordate in particolare le prove di Andrea Di Casa (Bassanio), Nicola Pannelli (Antonio) e Sergio Romano (Lancillotto), e precisato che soprattutto nella scena del tribunale si accende una coralità di elevato livello, va preso nota di alcuni, anzi numerosi elementi che per quanto leciti, non hanno probabilmente trovato un filo conduttore convincente: inclinazioni dialettali a volte molto forti fra piemontese, ligure e siciliano, innesti di movimento sul bordo sottile di una danza accennata su occasionali note, travestimento della compagnia alla Groucho Marx, giochi di ombra quando la compagnia degli amici bastona l'ebreo che però restano appena accennati e senza osare abbastanza per conferire uno stile, il cameriere che appare e scompare in stile bistrot, la figura di Porzia/Barbie alla stregua di una icona pop, costumi che coprono un arco di almeno 30-40 anni di inizio secolo... insomma il registro complessivamente risulta molto alterato, e questo di per sé denota intenzioni e mano innovative, eppure ognuno degli elementi adoperati non “osa”, né fa eco all'altro e/o si giustifica da solo, come se non si spingesse a marcare il territorio, che resta perciò senza padrone.