Molière è un grande conoscitore dell'animo, dei comportamenti, dei meccanismi del ragionamento, delle convenzioni sociali, per cui i suoi testi, sempre molto attuali, funzionano giustamente a teatro, come meccanismi perfetti dalle dinamiche equilibratissime.
Mario Perrotta, oltre che interprete, è regista e traduttore di questo Misantropo, ambientato in una scena vuota ma concepita come un ring: al centro un quadrato delimitato da righe bianche disegnate a terra, intorno le postazioni per chi non è di scena, seduti sopra sgabelli dai sostegni inusuali (uno a forma di mano). Gli stessi movimenti dei personaggi rimandano a incontri pugilistici. Idea non nuova ma che pare funzionare.
Perrotta ha il merito di avere ridotto il testo senza comprometterne la trama, anzi evidenziando gli snodi della storia e le relazioni tra i personaggi salvando la cadenza in versi. Giustamente approfondito nel primo atto il dialogo tra Alceste e Philinte che pone le premesse e circoscrive gli avvenimenti: “non voglio l’amicizia di un’anima corrotta … la vera stima si basa su una scelta, senza tollerare convenzioni” dice il protagonista, che sottolinea la corruzione della società, il conformismo, l’assenza di valori. “Ma è folle avere la presunzione di convertire il mondo”, replica l’amico. Uno sostiene che “un legame nasce in seguito a una scelta successiva a una conoscenza approfondita”, l’altro condivide l’idea ma guarda la società con realismo e maggiore tolleranza. Il protagonista invece non ce la fa, è contro il servilismo e l’insincerità e per questo condannato alla misantropia, alla solitudine affettiva e all’isolamento sociale: “qualcuno è bravo a fingere, qualcuno invece no”. Così Alceste si scontra con Oronte per una sua poesia, il quale lo denuncia. E il prosieguo coinvolge anche le vite sentimentali.
Tutti i personaggi sono ritratti come “maschere”, accomunati da un certo nervosimo, resi con veloci ma precisi cenni: Célimène seducente tanghera, la verginale sciapita Eliante, la monacale ma bollente Arsinoè, il vanitoso Oronte, i cortigiani Clitandro e Acaste, il saggio ma servile Philinte. I duelli verbali sono basati su tesi e antitesi, senza sintesi. Unico punto debole di Alceste è l’amore per Célimène: “l’innamorato deve seguire il suo destino … il cuore sa inviare messaggi molto chiari e basterebbe avere orecchio per intendersi”.
Tutti, tranne il protagonista, hanno uno specchio, forse simbolo di vanità, di culto dell’esteriorità, di superficialità, al punto da usarlo non solo per guardarsi ma anche come arma contro l’altro. Specchi portati attaccati all'abito oppure in tasca, come oggi i cellulari, oggetti ieri (specchi) e oggi (telefoni) troppo spesso usati a conferma della propria immagine e in sostituzione di una sostanza interiore, morale ed intellettuale.
Efficace il finale, con Alceste che resta in platea, al di qua del sipario chiuso, senza luce né parole: solo, in un mondo che gli appare ormai estraneo.
La regia ha il pregio di sintetizzare il testo mantenendo sempre alta la tensione dei dialoghi, pur in assenza di scenografie, anzi direi grazie a questo. Bella ed orecchiabile la traduzione dal francese che attualizza senza scadere nella banalità e mantiene una piacevole versificazione. In tal senso non è parsa necessaria la lunga tirata sui politici attuali: lo spettacolo funziona bene ed è un meccanismo preciso che non ne ha bisogno, anche se il pubblico ride molto. Come anche certi inutili e quasi fastidiosi momenti di musica, come in casa di Célimène. Particolarmente azzeccati gli abiti, contemporanei ma con dettagli d’epoca inusuali, discreti e raffinati: le scarpe bicolore, le fibbie e i medaglioni, pizzi che spuntano dalle maniche delle giacche, gilet e pantaloni a vita alta, una sciarpa di paillettes.
Affiatati ed adeguati gli interpreti: Mario Perrotta, Marco Tolini, Lorenzo Anzaloni, Paola Roscioli, Donatella Allegro, Giovanni Dispensa, Alessandro Mor, Maria Grazia Solano.
Poco pubblico, anche a causa di ghiaccio e neve, ma caloroso.