E' andato in scena sabato 14 u.s. il doppio spettacolo Il non fare e The Cat Inside entrambi di Francesca Proia e Danilo Conti, quarto appuntamento della rassegna D10 spazi per la danza contemporanea.
Francesca Proia, da sola sul palco, si muove in uno spazio organizzato in un vero e proprio allestimento scenico, teli di quinta ridisegnano lo spazio scenico nel quale si muove la danzatrice. Delle luci proiettano sulla parete di quinta delle forme geometriche (quadrati e rettangoli), mentre Francesca si muove con i micromovimenti che abbiamo imparato a conoscere già nelle precedenti coreografie della rassegna. Movimenti impercettibili che la portano da una posizione
prona a una in piedi, in seguito a un lento continuo esitare del movimento. Intanto le luci (e la musica) costituiscono delle quinte sonore e visive, mentre, ogni tanto, delle immagini retroproiettate traspaiono dalla parete di destra, sovrapposte in un complesso gioco di luci. L'impressione è più quella dell'happening, dell'istallazione d'arte che di una vera e propria coreografia. Non pensiamo nemmeno al teatro danza perché l'allestimento non sembra volersi rivolgere al pubblico in uno scambio dialettico, ma piuttosto si limita a chiedergli di esercitare l'unica funzione che gli viene riconosciuta: guardare. Manca la necessità di quella partecipazione, quello scambio tra spettatore e attore (danzatore) che fa del teatro (della danza) un'esperienza viva, unica.
Nel secondo spettacolo, che segue al primo senza soluzione di continuità, Francesca Proia continua nella medesima ricerca coreutica, approdando a un movimento frenetico delle dita come stesse usando una tastiera, che, crediamo, voglia evocare gli artigli del gatto del titolo dello studio; intanto si sente un insistito frullo d'ali mentre il video di uno sbatter d'ali va in retroproiezione su di uno strano dipinto, anch'esso proiettato, che ritrae la sagoma di una figura
umana, di spalle, con le braccia spalancate.
Un allestimento freddo, cerebrale, criptico, ostile, quasi, verso gli spettatori cui non è chiesto di capire nulla ma solo di assistere, composti e in silenzio.
Colti dal dubbio che si tratti di una nostra manchevolezza, che abbiamo guardato senza vedere, chiediamo conforto alle note di regia che, ci sembra, confermano la nostra prima impressione.
A proposito de Il non fare Conti scrive: L'assolo indaga lo spazio secondo due parametri yoga: il paradosso e il ritmo. Il Pranayama, scienza del ritmo appartenente allo Yoga, studia i circuiti delle forze interiori. Attraverso il Pranayama la Proia cerca un movimento che dalla fluidità procede verso la coagulazione, una danza che (...) condensa la propria materia vitale e poi la dissolve progressivamente e, nascondendosi nello spazio, investiga il mondo delle forme.
L'assolo è dunque una composizione che fa riferimento alla cultura, alle conoscenze dei suoi autori, partendo da un argomento preciso (anche se riportato nei termini generici e vaghi dello yoga e dei circuiti delle forze interiori) che in scena arriva talmente trasfigurato da perdere la propria intelligibilità e rimanere come pura forma, pura esteriorità: lo spettatore deve credere alle origini dello spettacolo ma non può verificarlo in scena.
Questa enorme distanza tra punto di partenza e punto di arrivo è ancora più evidente in The Cat Inside (presentato ancora come studio) che, come spiegano le note di regia, si basa (...) su alcuni scritti di natura molto diversa tra loro: fonti letterarie, documentaristiche o cliniche, tutte accomunate dal fatto di gettare luce sull’attimo preciso in cui un bambino viene casualmente in contatto con una forma di energia legata al suo inconscio (paure, emozioni, sogni, visioni) che riesce a dar vita ad una rappresentazione-totem esatta e concreta (un oggetto, un
animale) oppure sboccia in una situazione di realtà distorta.
Cosa resta di tutto ciò nello studio che abbiamo visto in scena? Niente se non il risultato di un processo cui nulla ci è dato sapere. Le coreografie presentate al pubblico del Furio Camillo non sono il tramite tra gli autori e il pubblico, la dimostrazione di un percorso di ricerca, ma, ci sembra, un monumento narcisista ed egotistico alla loro ricerca, i cui eterogenei punti di partenza sono cancellati da una trasfigurazione talmente spinta che parlare di fonti letterarie,
documentaristiche o cliniche, confrontate con la coreografia in scena, è come minimo pretestuoso, se non presuntuoso.
Come molte forme d'arte contemporanea l'artista si è sostituito all'opera, ma non già la danzatrice, che nei due allestimenti è ridotta a rango di un elemento scenico manovrato dalla volontà totipotente dei coreografi, quanto i coreografi stessi le cui coreografie sono un complesso monumento autoreferenziale e non un'occasione conoscitiva o riflessiva per lo spettatore la cui unica necessità è quella di testimoniare l'esistenza di un allestimento che esiste non già per lui ma solo per se stesso.
Di fronte a una impostazione estetico/politica di tal guisa chi scrive non è in grado di svolgere la sua funzione critica né ha voglia di aggirarsi per i meandri ecolalici di chi si crede abbastanza interessante da sostituirsi alla danza e al teatro.
Roma, Teatro Furio Camillo, 14 marzo 2009
Visto il
al
Furio Camillo
di Roma
(RM)