Prosa
IL PADIGLIONE DELLE MERAVIGLIE

La rievocazione di un tipo di teatro scomparso.

La rievocazione di un tipo di teatro scomparso.

Il padiglione delle meraviglie - un atto unico in due quadri scritto da Ettore Petrolini nel 1924 e andato in scena  per la prima volta al teatro Verdi di Vicenza il 30 novembre di quell'anno - racconta i retroscena di un teatro da fiera della vecchia Piazza Guglielmo Pepe di Roma, dove si poteva assistere a teatri di burattini e bersagli, fonografi poliglotti (...) fotografie istantanee, bazar, chioschi di fiori, panorami (...)1.

Le attività del Padiglione del titolo, tra attrazioni esotiche e imbonizioni, forniscono uno sfondo movimentato per un tradizionale triangolo amoroso che vede il non più giovane Tiberio ancora innamorato di Elvira, la donna sirena, che lo ha lasciato preferendogli il più prestante Tigre. Tutti criticano le scelte di Elvira e solidarizzano con Tiberio, il quale pur di starle accanto si umilia a vederla amoreggiare col Tigre (almeno quando lavora sta qui... la vedo la sento...) e alla fine riuscirà a riconquistare Elvira che umile e domata tornerà a vivere con lui.

Un racconto esemplare nel suo maschilismo d'epoca, con una sotterranea vena di misogina che ascrive alle donne tutte le miserie e le sofferenze degli uomini che grazie all'intelligenza drammaturgica di Verdastro - che contamina Petrolini con alcune notazioni sui personaggi del poeta Elio Pecora - e all'inventiva di Stefania Battaglia - che allestisce un sottotesto visivo squisitamente colto con un impiego sinergico di scene e costumi - si trasforma in uno splendido omaggio a un teatro scomparso anche dall'immaginario collettivo contemporaneo colonizzato dalla tv.

Verdastro opera pochi interventi correttivi sul testo di Petrolini, tutti mirati a dare maggiore coerenza agli innesti testuali di Pecora, e a stemperare di molto il maschilismo d'epoca compreso il finale dove Verdastro fa della Sirena, una donna molto meno domata di quanto non voglia Petrolini mentre valorizza i brani di Pecora presentandoli come degli a parte che fa dire ai personaggi.

Evidenziati da una luce sagomata, i personaggi dicono le parole di Pecora come fossero monologhi interiori mentre il resto della scena si congela  piombando nel buio, oppure, rimane in penombra mentre il personaggio di turno parla tra sé e sé oppure si rivolge direttamente al pubblico. Un commento d'autore che dà ai personaggi e allo spettacolo maggiore respiro e uno spessore che altrimenti rimane schiacciato tra le righe di un testo laconico.

E mentre assolvono a una funzione drammaturgica questi a parte contribuiscono a un discorso metateatrale che percorre tutta la messinscena di un testo che parla di un gruppo di attori e attrici all'opera, che in Petrolini è un puro contesto narrativo mentre per Verdastro diventa una ghiotta occasione per allestire un omaggio al teatro cancellando il confine classista tra teatro da fiera e teatro alto innervando la messinscena di echi pirandelliani.Così i numeri che in Petrolini sono solo accennati vengono davvero messi in scena da Verdastro dando allo spettacolo una vocazione enciclopedica e ludica davvero uniche.

Le competenze ginniche e coreutiche degli attori e delle attrici contribuiscono alla riuscita di questa messinscena felice dando credibilità anche ai numeri  proposti  al pubblico di oggi a testimonianza di un teatro che esiste ormai solo sui libri di storia che ritrova in questo allestimento una reincarnazione precisa in un continuo scambio sinergico tra testo e metatesto di notevole efficacia ed eleganza.

Una allusività metateatrale che non abita solo la drammaturgia ma percorre anche  le scenografie dalla gabbia praticabile nella quale è rinchiuso l'antropofago Amalù alla cassettiera a forma di stella che funge ora da toletta ora da elemento scenico per la recita del Padiglione, passando per tutta una serie di attrezzerie tutte praticabili  e manovrabili (montate su ruote,  divano compreso) attestandosi su una ricerca visiva che rivisita con eleganza i trucchi del teatro di fantasmagoria (le maschere che permettono agli attori di
interpretare più personaggi; i vorticosi cambi di abito in tempi strettissimi come nel teatro trasformista; la donna fatta a pezzi impiegando un drappo nero per le parti del corpo da occultare; i combattimenti coreografati) il teatro delle ombre, le danze esotiche (riprese anche dal cinema delle origini)  sfruttando una tenda circolare e le sue trasparenze, posta al centro del palco, opportunamente chiusa o aperta che mostrano od occultano le varie attrazioni del padiglione. 

I costumi, dagli intarsi futuristi di stoffa della giacca di Lalli alle perline che pendono dalla vita di Amalù à la manière di Josephine Baker, rivisitano un certo gusto per l'esotico (lo splendido costume da sirena) che caratterizzava il teatro di allora mentre le trombe, i tamburi e i piatti suonati davvero in scena rievocano la descrizione della fiera fatta da Tentore: Tutti gridano a squarciagola, magnificando le bellezze e le meraviglie del proprio teatrino, mentre suonano gli organetti, rullano tamburi e tamburoni; né manca, tratto tratto, «il
rauco suon della tartarea tromba!».


Verdastro cura particolarmente anche la partitura sonora dai tuoni de pioggia con cui apre lo spettacolo alla registrazione di Petrolini che recita l'incipit di Tiberio (sulla quale Verdastro va in un playback evidente, altra evocazione da fiera) coniugandola con un gusto musicale contemporaneo (da Loredana Bertè a Leonared Coen).

Lascia sconcertati e perplessi invece il finalissimo che vede Chiara Lucisano cimentarsi in una danza a seno nudo (protetta solo dalla trasparenze della tenda) che risulta posticcia e fuori luogo corroborando il maschilismo fino a quel momento tanto elegantemente messo a tacere, senza davvero aggiungere nulla a una messinscena altrimenti impeccabile.

1) T. Tentore, Dieci giorni a Roma, Libreria Salesiana Editrice, 1901 citato da Piero Angelucci nel sito Archeobiblio

Visto il 05-10-2013
al Vascello di Roma (RM)