Il pigiama è un monologo, elegante e ben scritto, di Daniele Prato, solo parzialmente adombrato da un'urgenza espressiva che lo fa annoverare più tra le opere letterarie che tra quelle teatrali. L'arguzia del testo, le battute ironiche, le idiosincrasie del suo protagonista, le citazioni mai banali (come quelle al testo di un brano di Flavio Giurato) infatti, trovano già il modo sulla pagina senza bisogno di essere necessariamente messe in scena, perché sul palcoscenico si perdono, solo un po', nella ricerca di una necessità drammaturgica che non sempre trova la sua ragion d'essere.
Il pigiama è indossato da un giovane uomo che, scalzo, si aggira per la propria casa, tra uno stendino nel quale sono appesi altri pigiami, un telefono posto in un angolo (al quale chiede inutilmente di suonare) e un divano che campeggia al centro della scena, il pavimento della quale è fatto di assi sbilenchi, in discesa e in
salita, così come le parti di fondo non sono poste tutte sulla stessa
linea d'orizzonte, e alla finestra di una di questi muri storti compaiono anche le sbarre come nelle prigioni del far west... L'uomo col pigiama è un uomo che è stato lasciato. Si aggira in casa rassegnato, sopraffatto da un dolore che lo stordisce, al quale cerca di reagire pensando, commentando, raccontando il suo modo di essere, di sentire, di pensare. Ci ragguaglia sulle proprie idiosincrasie, sull'avversione per alcune parole, per alcuni modi di dire, ci racconta delle sue perplessità per il blu klein, parola, "blu", che diviene quasi un mantra da usare contro i maleducati e le maleducate dei nostri giorni, quelli, quelle, che bloccano il traffico per rispondere al telefono, o le amiche che dicono che se non ti sai tenere un affetto la colpa è solo tua.
L'uomo in pigiama ama le donne sinceramente, senza alcuna velata misoginia, distratto tutt'al più da qualche mania estetica (trova sciatte le donne con la ricrescita).
In mano a una penna meno sensibile e più televisiva ne sarebbe emerso uno psicopatico che odia le donne e ne approfitta per parlarne male, in mano a Daniele Prato il giovane protagonista diviene un personaggio vero, che non si preoccupa di mostrarsi in tutta la propria fragilità affettiva, attanagliato da un dolore sordo nel quale possiamo specchiarci con agio e discrezione perché è un dolore che né il testo né l'interprete gridano, senza per questo apparire meno concreto, meno difficile. Un dolore per il quale l'uomo in pigiama annaspa, tanto da farci tenerezza, ma mai pietà.
Daniele Prato ha avuto la fortuna di trovare un interprete ideale per un uomo atipico per gli standard del maschietto medio italiano.
Francesco Montanari è bravo e generoso nel regalare al suo personaggio una dolcezza che non mette affatto in discussone la sua virilità (come il suo personaggio teme) ma anzi ne rafforza la verità di uomo solo, fragile, tutto concentrato sul proprio ombelico affettivo, anafettivo e idiosincratico. Un bravo attore di teatro che ha avuto notorietà per il personaggio del Libanese nella fiction televisiva di culto Romanzo Criminale che dimostra che è proprio vero il detto che mentre tutti possono fare televisione solo gli attori bravi possono calcare le scene.
Francesco Montanari lo fa in maniera mesta ed elegante.
Il pubblico apprezza e applaude generoso.
Un buon debutto per la VI edizione della rassegna teatrale "LET Liberi esperimenti teatrali".
Visto il
13-01-2010
al
Cometa Off
di Roma
(RM)