La XXIII Giornata Mondiale della Lotta all'AIDS, l'incasso devoluto in beneficenza, un Lanificio 25 che mantiene l'impegno di originale struttura-progetto, una folla perfino eccessiva per la stessa godibilità dello spettacolo, un manoscritto incompleto che sebbene si riferisca ai verbali di un processo del 1895 è stato ritrovato solo nel 2000 nella British Library di Londra: vanno messi insieme diversi elementi, per ricordare "Il Primo Processo di Oscar Wilde" (progetto e regia di Roberto Azzurro, drammaturgia di Massimiliano Palmese), perchè solo l'insieme rende l'idea di quella che è stata soprattutto una serata, con tutto il piacevole senso di completezza del termine.
Quella che Hall Caine definì come “la tragedia più orribile di tutta la storia della letteratura” ebbe dei presupposti che da soli rappresentano degnamente molte delle caratteristiche di un animo intenso, provocatorio e drammatizzante come quello che fu di Wilde fino a prima che proprio queste vicende lo distrussero per sempre.
Fin quando le sue avventure (extraconiugali, oltretutto) rimasero circoscritte all'ambiente dei ragazzi proletari, la comoda ed ipocrita società seduta intorno fece finta di nulla, riproducendo i suoi vecchi quanto funzionanti cliché perbenisti, ma tutto cambiò quando fu troppo “palese” la sua relazione con Alfred, detto Bosie, il figlio di Lord John Sholto Douglas, ottavo marchese di Queensberry.
Il Lord non si fece scrupolo di insultare pubblicamente e per iscritto Wilde, con un biglietto infamante e sgrammaticato (“A Oscar Wilde, che posa a sodomita”), e lui fece a questo punto una mossa che definire azzardata è poco, probabilmente c'erano gli estremi per considerarla già allora suicida, e che però resta una delle più alte forme di coerenza della sua vita all'ideale artistico che aveva sempre impersonificato: fu lui, a denunciare Lord Douglas, querelandolo per diffamazione, non senza la spinta di un Bosie smanioso di vendicarsi del padre.
Questo è il punto da cui parte lo spettacolo, e leggendo i verbali sembra di leggere già una drammaturgia teatrale: le parole, i toni, i mutamenti degli animi e l'alternarsi delle fortune processuali secondo le migliori o peggiori riuscite dello spirito e dei fatti, oltre ad un florilegio di risposte rimaste nella storia per il genio che le ha rese vere e proprie sentenze ben oltre lo humour, tutto rende il Primo Processo perfettamente compiuto come testo da portare in scena, e Roberto Azzurro (Oscar Wilde) e Carlo Cerciello (Edward Carson, "l'accusa") inseriscono in questa trama, rispettivamente, i caratteri della propensione all'irrisione iniziale ed al travolgente spirito dettata dalla sottovalutazione degli eventi che svanisce poi nella dissolvenza del risveglio tardivo di fronte all'imminente tragedia della condanna, ed una cupa ricerca del punto debole che via via si fa certezza di avere tutto in pugno.
Fu compito abbastanza facile, infatti, per l'accusa, dimostrare con una successione di testimoni, rubati al mondo della prostituzione, il passato ed il presente delle preferenze sessuali di Wilde, che perciò da accusatore fu trasformato in accusato, e di preciso in imputato di gross indecency ("grave immoralità", era questo l'eufemismo per indicare l'omosessualità, che era illegale).
Conclusione: condanna a due anni di lavori forzati, bancarotta, carriera distrutta. E con lui, condannato fu anche l'amore che esisteva tra Davide e Gionata, quello che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, e che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare.
La degna, prolungata uscita di scena di Azzurro e Cerciello avviene in una atmosfera intensa ed oscura, che lascia presagire le tappe successive della vita di Wilde, fatte di passi ormai sempre discendenti, anche se a volte ancora immortalati come nel De Profundis, la lettera che non fu mai data a quel Bosie con cui visse ancora per qualche tempo proprio a Napoli, e nella Ballata del carcere di Reading.