Teatro Comunale di Bologna blindato per i controlli e le perquisizioni di polizia all’ingresso in occasione di questa controversa messa in scena del singspiel mozartiano, pensata e ideata dal regista Martin Kusej, non certo nuovo a toccare temi sensibili per la nostra società contemporanea. L’idea di un parallelismo fra quella ricerca di esotismo tipicamente settecentesca, che sulle proprie spalle portava ancora tutto il terrore che l’esercito ottomano aveva sparso per il continente non troppi anni prima con l’assedio di Vienna, e la paura che oggi pervade l’Occidente a causa delle imprese del sedicente Califfato islamico poteva certo essere buona, ma la sua realizzazione concreta resta in questo caso specifico piuttosto in superficie, senza scatenare nello spettatore alcun tipo di pathos, così da risultare in sostanza piuttosto fredda. Per l’occasione, vista anche la modifica apportata al finale che da lieto diviene tragico con la decapitazione dei personaggi operata fuori scena, vengono modificati alcuni dialoghi del singspiel a uso e consumo ovviamente delle scelte registiche, le quali vengono così rese più credibili anche dal testo.
Al levarsi del sipario ci si trova in un deserto, realizzato con della sabbia finissima ricavata dal legno di sughero e per questo quanto mai realistica; in mezzo a questa distesa spicca una grossa tenda berbera che funge da quartier generale di Selim e dei suoi scagnozzi. La collocazione temporale della vicenda di per sé sarebbe a conclusione della prima guerra mondiale, ma di fatto i continui riferimenti all’ISIS, come la bandiera nera, le armi spianate alla testa dei prigionieri immortalate da fotografie di propaganda, la fanno sembrare ben più vicina a noi. Molto suggestivo il secondo atto tutto realizzato alla luce di un vero fuoco acceso al centro della scena mentre il cielo retrostante si scurisce e fa spazio alle tenebre. Lo spettacolo però non pare decollare del tutto a causa di una certa staticità globale e di una recitazione non sempre così realistica, caratteristiche che il finale a sorpresa in cui Osmin getta ai piedi del Pascià le teste mozzate dei protagonisti non basta a far dimenticare.
L’unico personaggio scenicamente ben definito è proprio l’Osmin di Mika Kares che sfodera una bella vocalità calda e scura, solida in tutti i registri. Poco più che corretti tutti gli altri, a partire dal Belmonte di Bernard Berchtold che non possiede uno strumento particolarmente allettante o così sonoro, fino al Pedrillo di Johannes Chum che evidenzia qualche sbiancata in acuto. Sul versante femminile la Blonde di Julia Bauer, nonostante qualche leggera asprezza timbrica, appare generalmente sicura ed è in grado di tratteggiare un personaggio giustamente garrulo e vivace. Meno a fuoco, invece, la Konstanze di Cornelia Götz. Adeguato il Selim di Karl-Heinz Macek.
Nikolaj Znaider ben dirige l’Orchestra del Comunale di Bologna staccando tempi piuttosto distesi ed evidenziando una concertazione ricca di colori, dinamiche e sfumature, piuttosto propensa ad accentuare i toni patetici, in sintonia con le scelte registiche.