Napoli, teatro di San Carlo, “Die Entführung aus dem Serail” di Wolfgang Amadeus Mozart
IL RATTO DALLO YACHT
Ci sono spettacolo dai quali il pubblico esce dicendo “Bello, bello” oppure “Brutto, brutto”. Ci sono spettacoli invece che dividono il pubblico, che spingono al commento più approfondito, che impongono un ragionamento ed un confronto. E il Ratto del San Carlo è uno di questi ultimi. Infatti sia durante l'unico intervallo che all'uscita era solo un parlare di quanto visto in scena, con pubblico diviso (ma questo non è importante) ma aperto al confronto e alla critica (e questo è ottimo).
Il giovane e talentuoso regista Damiano Michieletto ci ha abituati a lavori che in apparenza sembrano dissacranti ma che, in realtà, non sono dissacranti nel senso proprio del termine, in quanto l'originale non viene stravolto e l'approccio registico serve a dare una chiave di lettura nuova (ma non opposta), forte di una ambientazione contemporanea. Così era per la Gazza ladra del ROF (premio Abbiati come migliore spettacolo del 2007), recentemente passata a Bologna e Reggio Emilia: il sogno di una bambina. Così era per il Cappello di paglia di Firenze, visto a Genova un paio di anni fa (il cubo magico), e per Romeo e Giulietta di Gounod, appena creato per la Fenice: il mondo in un disco di vinile.
Il ratto dal serraglio è ambientato in uno yacht in mare aperto (scene di Paolo Fantin, costumi di Silvia Aymonino, luci di Alessandro Carletti). Mancano forse l'ambientazione esotica voluta da Mozart e il senso della favola. Ma, a guardare bene, c'è tutto. Oggi non esiste più l'esotismo come lo intendeva Mozart (con l'idea illumistica di apertura razionale verso le altre culture) né in senso Ottocentesco, con l'aura di vagheggiamento sognante resa dai pittori orientalisti. E il favolismo oggi riduce la storia del Ratto a tristi fattacci di cronaca con rapimenti, tentati stupri, sopraffazione, droga e veline compiacenti pronte a tutto con il padrone di turno (con il lieto fine). Il serraglio era ai tempi di Mozart luogo di isolamento e costrizione, come una barca in mezzo al mare. Così l'opera ha luogo su uno yacht, appunto: il Palast, per creare continuità con il libretto, che, nelle parti recitate, viene parzialmente adattato. Al centro la storia d'amore: i sentimenti in primo piano. Michieletto crea una storia chiarissima e godibilissima, avvincente, che incatena lo spettatore alla poltrona e ne cattura l'attenzione, massimamente nel terz'atto, una vera spy story, quando la tensione sale al massimo nel momento in cui Belmonte svita l'oblò per liberare le ragazze e Selim costringe Konstanze alla roulette russa verso i suoi amici (questa la tortura, mentre canta “Martern aller Arten”). Michieletto è bravo nel dirigere i cantanti in uno spazio ristrettissimo, bravo nell'inventarsi trovate che creano un perfetto climax, bravo nell'aver pensato a un finale che, da solo, vale tutto lo spettacolo.
Infatti la storia è esattamente quella originale: Konstanze in mano a Selim (un volgare individuo, vistosamente ricco ma senza il senso del buongusto – catena d'oro al collo, occhialoni firmati, asciugamani zebrati, accappatoio col collo di pelliccia - , dedito alla pesca subacquea e alla cocaina, oltre che al ratto di straniere – trattiene il passaporto di Blonde); Belmonte di lei innamorato che cerca di liberarla con l'aiuto di Pedrillo, il quale è attratto di Blonde, la quale è concupita da Osmin. Osmin sorprende in procinto di fuggire Konstanze, Belmonte, Pedrillo e Blonde ed avverte Selim, che, però, dopo un lungo ragionare li lascia partire. Belmonte è il figlio del peggior nemico di Selim, il quale però non si abbassa alla vendetta ma fa prevalere il perdono e una nuova opportunità. Di fronte alle continue proteste di Osmin, Selim gli spara un colpo di pistola e lo uccide. Si ritrova così solo, a bordo della barca: lui che di Konstanze era davvero innamorato e, a prua, scoppia in lacrime: Selim diventa l'unico che soffre davvero per amore. E il suo pianto disperato (ancora più toccante, essendo un uomo di una certa età) ha in sottofondo il coro che canta “Lunga vita al Pascià Selim, sia sempre onorato, possa risplendere il suo nobile ciglio, pieno di giubilo e fama”.
Va da sé che un allestimento del genere necessita di cantanti che siano al tempo stesso ottimi attori e dotati di fisici adatti ai ruoli pensati dal regista. Peter Simonischek, gloria del teatro di prosa tedesco, è un Selim straordinario, toccante: mezze voci piene di espressività e una gamma di sentimenti vastissima. Jane Archibald è Konstanze dalle lunghe gambe, sicura nelle agilità: “Martern aller Arten” è spostata al terzo atto ma funziona benissimo. Valentina Farcas è Blonde, esile ma con voce solida. Yi Jie Shi è un esile Belmonte dai tratti orientali, con voce lirica e piena: azzecca “Konstanze! dich wieder zu sehen” dal gommone, di fronte all'apparizione dell'amata, in un attimo di sospensione molto poetico. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke è un adeguato Pedrillo, sottotono nei quartetti. Krtistinn Sigmundsson è un convincente Osmin, prepotente con le escort-odalische, sprezzante nell'umiliare Pedrillo. Con loro il silente Klaas di Giulio Barbato, che guida il gommone con cui Belmonte assalta il Palast e le quattro escort, moderne odalische.
Jeffrey Tate dirige con equilibrio l'orchestra del San Carlo, rispettando i tempi con lucidità e cercando i colori nella partitura. In linea con la lettura registica, Tate svincola l'opera dal bozzettismo di maniera e dalla tradizione che la avvicina quasi all'operetta, prediligendo invece i toni profondi dell'umano sentire e spingendo, nel terz'atto, su una dinamica continua e pulsante.
Il coro, preparato bene da Marco Ozbic, è invisibile nel golfo mistico.
Qualche posto vuoto a teatro, alcuni spettatori se ne sono andati durante l'intervallo, perdendo un terz'atto favoloso. Alla fine applausi per tutti, soprattutto per il direttore.
Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 26 aprile 2009
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
San Carlo
di Napoli
(NA)