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IL REGISTRO DEI PECCATI

"Il divino è assente ma ingombrante"

"Il divino è assente ma ingombrante"

Raccontare, cantare, far ridere. Nel mondo superficiale e veloce - il ‘tragicamente scemo’ qui non è solo un omaggio all’autore, ma realtà pulsante e ‘viva in mezzo a noi’ - sembrano arti che, se affinate, portano al successo e anche un certo benessere ai fruitori dell’intrattenimento. Uscire però dalla logica frettolosa dei talent e di una mania, molto contemporanea, di vivere con enfasi eccessiva quanto di artistico ci possa capitare nella vita, può aiutare a riscoprire il senso originale di queste attività.
Sopraffatti dai suoni, molti indesiderati, che provengono da ogni dove. Bombardati da tentativi - non sempre riusciti - di storytelling e quasi costretti a mostrarsi divertirti da quella facile ironia, un po’ becera quando non stupida o banale, che ci propongono i mezzi di comunicazione (social compresi), sembriamo anche noi, uomini del XXI secolo, alla ricerca di un “messia”. Come gli Ebrei in viaggio verso la Terra Promessa, talvolta relegati ad una condizione di “stranieri soggiornanti” da qualche parte, dopo essere usciti da quella di schiavi dal regno d’Egitto. Una condizione quest’ultima, alla quale sembriamo destinati ancora oggi, sebbene in forme subdolamente diverse.


E se invece, al di là di ogni orpello o sovrastruttura, tentassimo di riscoprire e valorizzare il nostro essere spirituale? Come fece Chagall, che dipinse con colori intensi e vivaci il mondo interiore di individui, sospesi tra cielo e terra, prossimi ad un contatto con il divino, con il quale l’interazione era varia e continua. Un mondo scomparso, annientato dalla barbarie, che forse dovremmo, e potremmo, recuperare. Ed è quello che Moni Ovadia, con la sua ‘lieve rapsodia generata da un baluginio dorato’ si propone di fare: il suo “Registro dei peccati”, un reading che è un viaggio nella cultura khassidica e nella spiritualità degli Ebrei dell’Europa Centro-Orientale, prova a richiamare le atmosfere di un tempo e di un popolo che davvero sapeva raccontare - tramandando per via orale le tradizioni e gli insegnamenti di maestri come Abramo - la centralità dell’essere umano, fatto di fragilità. Una condizione universale, slegata dall’idea dell’esistenza delle razze e promossa non solo attraverso la parola, ma anche mediante il canto (che è preghiera, tentativo di congiungimento per instaurare relazioni con l’altro) e l’umorismo, quasi una disciplina di vita, inteso come il mezzo per “attivare il pensiero attraverso la critica della ragione paradossale” e sconfiggere violenza, idolatria, drastici aut-aut figli dei fanatismi di vario stampo.

Attraverso aneddoti, citazioni e racconti divertenti, Ovadia solletica la curiosità verso una dimensione che ci appare tanto lontana, ma forse ancora intimamente ricercata e non solo nella sua dimensione religiosa. Perché se è vero che il compito dell’uomo è quello di rammendare le lacerazioni del mondo, allora anche l’ateismo trova una sua elevazione nell’atto di pietà, come ricorda Martin Buber, uno degli autori citati nello spettacolo: aiutare i deboli nel bisogno, non affidandoli a Dio ma agendo come se nel mondo non vi fosse nessun’altro che possa alleviare le loro pene, è segnale di riconoscimento della dignità dell’uomo in quanto tale. Un messaggio da ricordare.

Visto il 22-09-2015