Nel celeberrimo paradosso di Zenone di Elea, Achille se la vede con una tartaruga, mentre è l'Ulisse per Bob Wilson che è alle prese con l'animale nel prologo del Ritorno, insieme a un coniglio bianco che pare in attesa di Alice in Wonderland, alla Fortuna cieca (modernizzata con un revolver) e a un piccolo Amore alato che finisce a cavalcioni della tartaruga dopo che un Ulisse in sembianze di anziano viandante se n'è andato, seguito da un enorme calice di cristallo (anche le rosse mele di un albero dipinto sono cadute a terra).
Nel programma di sala, che ha splendidi quadri del secondo Ottocento sul tema, Claudio Toscani approfondisce la capacità monteverdiana di “muovere gli affetti grazie alla rappresentazione di personaggi reali, profondamente umani”, anche se all'ascolto di oggi la partitura pare senza musica, cosa di cui i più si lamentavano durante l'intervallo. Invero le parole dei lunghi recitativi determinano la melodia, sostenuta da un basso continuo polistrumentale qui affidato al gruppo Concerto Italiano.
La scena, dello stesso Wilson con la collaborazione di Serge von Arx, è vuota, se non per moduli di parallelepipedo grigi che vengono assemblati per rendere le scene di interno. Una prua di nave scheletrizzata per lo sbarco su Itaca, alberi stilizzati e una statuetta che sale su un altissimo piedistallo e che dovrebbe essere un dio ma che piuttosto ricorda un atleta. Gli splendidi costumi di Jacques Reynaud rimandano all'epoca barocca con richiami all'antichità, quasi il gusto seicentesco di proporre la grecità, differenziando con immediatezza la condizione sociale dei personaggi (costumi completati da un make-up pesantissimo e da imponenti parrucche che contribuiscono a rendere i cantanti quasi automi marionettistici). Le luci, dello stesso Wilson con disegno di A. J. Weissbard, da sole fanno lo spettacolo, come sempre negli allestimenti del regista: fondi senza tempo e al di fuori dello spazio, atmosfere oniriche che repentinamente virano nella più cruda realtà, tonalità spesso azzurrate dense di significati, anche non immediatamente percepibili per lo spettatore.
Bob Wilson non si cura del fatto che il librettista ed il compositore tratteggino individualmente le singole figure dei protagonisti, approfondendole. Fedele alla sua cifra stilistica personale, il regista svuota la scena, gioca sulle luci e impone movimenti lenti e rarefatti. I cantanti entrano in scena camminando di spalle, escono al ralenti dopo aver cantato e, in scena, restano fermi in pose plastiche oppure assumono due o tre posizioni che paiono mutuate dalla pittura vascolare antica oppure dai bassorilievi dell'epoca. Si predilige una narrazione lineare che metta in primo piano il canto, non accompagnato da una “drammaturgia” scenica. I gesti sono rarefatti e quei pochi, minimalissimi e robotizzati, sono solo cambiamenti di posizioni fisse come immagini dell'antichità classica a ripetere i canoni di una vicenda senza tempo, marionette nelle mani di un destino che dipende dal capriccio degli dei. I personaggi sono completamente estranei l'uno all'altro: solo nel finale Ulisse e Penelope accennano a sfiorarsi la mano e si avviano verso il fondo, insieme. Eppure, nonostante qualche momento suggestivo, la regia è parsa meno convincente di altre recenti prove di Wilson, pur nella ripetizione di uno stile riconoscibilissimo e personale.
Rinaldo Alessandrini dimostra ancora una volta di essere uno specialista del repertorio, affrontato con sicurezza e cercando di rendere un suono filologicamente esatto. Rimane strettamente aderente alla scrittura per quanto concerne la distribuzione strumentale sia per i brani musicali che per l'accompagnamento a dialoghi e ariosi, senza riscritture né inserimento di brani di altri autori o altre partiture. Anticipa soltanto il duetto Melanto-Eurimaco a bilanciare la posizione di Penelope e un diverso modo di intendere il comportamento amoroso. Cura al massimo dizione ed accenti anche dei cantanti, legandoli mirabilmente al pur ridotto tessuto orchestrale, a cui gli antichi strumenti danno una forza emozionale alta.
Nel cast si è distinta Sara Mingardo, Penelope dalla voce scura che non teme gli abissi della partitura, anzi li cerca come espressione convincente di un'attesa che si nutre solo di sé stessa, la mancanza di un amore che, solo giustifica la vita; fiera e nobile, la Penelope della Mingardo non annoia mai (da considerare la parte ardua, non canta quasi mai, confinata in un recitativo che solo impercettibilmente trapassa in arioso) ed offre riflessi vocali di impari bellezza ed eleganza. Pur giusto vocalmente e con una buona gamma di mezzetinte, l'Ulisse di Furio Zanasi non spicca nell'allestimento. Ha convinto la Melanto carnale, innervata di passione, di Monica Bacelli, anche nei duetti con Mirko Guadagnini, voglioso Eurimaco. Marianna Pizzolato si distingue come Ericlea, ruolo non esteso ma affrontato con doti vocali di notevole espressività e caratura per rendere una tenera affettuosità. Bravo Gianpaolo Fagotto (Iro). Perfetti i momenti con gli dei in scena, Luigi De Donato (Nettuno) e Emanuele D'Aguanno (Giove). Suggestiva la voce di Andrea Arrivabene, che inizia il prologo come Humana Fragilità. Nel resto del cast: Anna Maria Panzarella (Amore, Minerva), Salvo Vitale (Antinoo), Luca Dordolo (Eumete), Leonardo Cortellazzi (Telemaco), Krystian Adam (Pisandro); Raffaella Milanesi (Giunone). Limitata la prestazione del coro della Scala, preparato da Bruno Casoni e posizionato in buca.
Teatro discretamente affollato ma pubblico tiepido.