Quanti tipi di ritorno esistono nella vita umana? C’è il ritorno omerico, il ritorno di Ulisse, quello di chi, al suo rientro a casa, scopre che nulla è mutato e tutti sono rimasti come congelati nell’attesa; c’è il ritorno evangelico, il ritorno del figliol prodigo, quello di chi si credeva perduto per sempre e viene perdonato e accolto come un re; c’è poi il ritorno di chi è stato in carcere per avere commesso un omicidio, il ritorno di una figlia amatissima e perduta che, con il suo gesto, ha distrutto il già precario equilibrio della sua famiglia ed è tornata per raccoglierne i cocci.
È questo il ritorno descritto da Pierattini nella sua piéce, un incontro freddo e crudele, talvolta malinconico, talaltra furioso, fra persone che non riescono a parlarsi, a capirsi, a creare alcuna empatia fra loro. Una madre divorata dall’odio per il marito, ‘colpevole’ di avere presentato alla figlia l’uomo che l’ha portata all’omicidio; un figlio ossessionato dal senso di persecuzione, a causa di una madre invadente, un padre assente e una sorella colpevole di avere trascinato tutta la famiglia nella sua disgrazia; un padre perseguitato dal senso di colpa verso tutti, il quale, inseguito tutte le notti dai fantasmi dei vivi e dei morti, aspetta rassegnato il momento liberatorio delle apparizioni dei suoi fantasmi interiori, per potere sfogare il suo rimorso e chiedere scusa.
Nella periferia bergamasca, in cui il lavoro e il denaro sono l’unico valore unanimenente riconosciuto, chi calpesta la propria fortuna, la propria buona sorte, la propria posizione lavorativa, acquisita faticosamente nel tempo, perde anche la dignità. La figlia ha distrutto la propria vita uccidendo il marito marocchino, che sognava di tornare al suo paese; il padre sta perdendo la sanità mentale e lo status di imprenditore edile che lo ha elevato dalla sua precedente professione operaia, ma gli ha portato solo sofferenza, sfortuna e disprezzo da parte degli amici sindacalisti e della famiglia stessa.
Tre sedie, una panchina, due squallide pareti ad angolo retto sono il teatro del ritorno, dei rancori, delle confessioni, delle incomprensioni, delle separazioni e del nuovo allontanamento finale, in una famiglia come tante, forse più colpita delle altre dalla sorte che infierisce sulla serenità umana.
Molto amalgamata e affiatata la piccola compagnia di quattro attori che si alternano sulla scena, dando vita a dialoghi graffianti e atroci che mettono a nudo i sentimenti migliori e peggiori dell’animo umano. Milvia Marigliano è una madre intensa e dominatrice, capace di suscitare il fastidio, ma anche la pietà del pubblico; Alex Cedron è un fratello spontaneo, credibile, forse l’unico che abbia una possibilità di vera redenzione; Gigio Alberti è un padre smarrito, sconvolto, immerso nelle proprie visioni che lo allontanano sempre più dalla cruda realtà; Veronica Cruciani, abile regista e valida attrice, interpreta una figlia espressiva, non allineata con il resto della famiglia.
In una delle rare occasioni in cui un pubblico teatrale ha la possibilità di ascoltare tracce dell’accento bergamasco in personaggi che non siano quelli della commedia dell’arte o dell’avanspettacolo – bravissimi Marigliano, Cedron, Alberti nell’imitazione della cadenza bergamasca non di immediata esecuzione – stona la pronuncia palesemente romana della Cruciani. Non è chiaro se sia stata una semplice svista o un’oculata scelta registica per evidenziare il fatto che la figlia è un personaggio estraneo al milieu della famiglia, lasciata anni prima per il carcere; un personaggio che non riesce a integrarsi con il circolo di odio, rancore e rimorso creato dai genitori e dal fratello.
Nonostante questa nota stridente, ancora più evidente per il pubblico di Bergamo, lo spettacolo, con i suoi settanta minuti circa ‘no stop’, è uno spaccato di vita vissuta e un momento intenso di teatro.
Bergamo, Teatro Donizetti, Auditorium di Piazza della Libertà, 29 aprile 2008
Visto il
al
Vittorio Emanuele - Sala Laudamo
di Messina
(ME)