Tratto dai “Processi Verbali” di Federico De Roberto, scritto di fresca scapigliatura ma più ancora di sangue naturalista e verista, Il Rosario appartiene al suo poco ricordato autore forse più di altri suoi lavori, sia per l'adesione stilistica a quella narrazione impersonale che divenne poi un principio, sia perchè probabilmente in Sua Eccellenza la Madre Donna Antonia Sommatino furono disegnate le ombre della sua, di Madre, la gelosa e dominatrice Donna Marianna.
Mario Santella ha sposato questa narrazione, insieme con un'adesione rigorosa, essenziale ma non priva di idee, delle scene di Flaviano Barbarisi ed Anna Seno e dei costumi di Marina Mango, e crea un leggero impatto contrastante ma convincente con lo stile prevalentemente ipotattico, articolato e subordinato del testo, perfino partendo dal silenzio della cecità: le tre figlie “superstiti” entrano ed escono bendate, senza capire, senza poter capire, per indossare poi per tutta la scena l'abito della madonna, a causa del voto fatto per riportare la pace in casa.
Le ansie e le sofferenze di vite spietatamente costrette in una sorta di "volontaria" autosegregazione, sono gli stupefacenti capostipiti di Bernarda Alba, che come ricorda giustamente Santella, è uscita dalla penna di Federico García Lorca solo trent'anni più tardi.
Per metà della rappresentazione, tutto sembra girare intorno ad una Donna Antonia che così assurge quasi a convitato di pietra, contribuendo all'accrescimento di un'attesa da colmare infine solo con una adeguata entrée: ed arriva, Sua Eccellenza La Madre, con il volto ideale ed assoluto di Rita Montes a costruire una figura ieratica che riesce a trasformare quasi in una visione, un riferimento ancestrale che detiene con un solo guinzaglio e su un dito solo, potere di vita e di morte sui/sulle sue suddite.
Si sprecherebbero i lettini Junghiani, nel leggere nei rivoli di questo archetipico filo che non appare nemmeno più invisibile, essendo un filo di guinzaglio fatto di una strenua, invincibile, fortissima fattura, puro acciaio dal quale nessuna suddita può liberarsi, perché radica in animi di donne che non conoscono vie di uscita.
Tranne una. La figlia prima prediletta ed ora maledetta, la ribelle che infatti non può fare altro che scontare la sua condanna non solo con un termine procrastinato, ma pagandone anche interessi letali, talmente alti da far pensare che forse sarebbe stato perfino meglio pagarli subito, come le altre, anziché trasmettere ora anche a tre figli una sorte insopportabile.
Ma le figlie annaspano, non sanno cosa fare ma nulla possono fare, dovrebbero lottare contro se stesse e non ne saranno mai capaci, sotto gli strali che diventano condanne anche se provengono da detti popolari, in quanto attuati alla perfezione nella vita reale: “Chi a 20 anni non sa, a 30 non fa, ed a 40 non fa e non farà”, “Sacco vuoto non può stare in piedi”... E se la Montes fornisce l'icona venerabile dell'Assoluto negazionista, Nunzia Durazzo appare la maschera più coinvolgente di questa inanità che pertiene alla semplice e disperata inazione.
Trovo geniale che il Tempo, l'unico tempo concesso alla comunicazione con l'esterno da sè, sia solo ed esclusivamente quello del ristrettissimo spazio che intercorre, durante la recita del Rosario, fra una litania e quella che le succede. Il ritmo incalza drammaticamente, fino alla chiosa che sembra una saracinesca: "Non vedete che dopo 9 anni ancora porto il lutto? E' morta!", suggellata da un incalzante Dies Irae che tuttavia, come nota finale, andando a pungere l'aspetto religioso rimasto finora solo sotteso, in quanto appunto sfondo della scena verista, obbliga a qualche considerazione sul senso della violazione del Rosario: la pratica mariana, venendo ad intersecarsi sia con l'asperità della grettezza del quotidiano, sia con una evidente profanazione di quelle stesse parole pronunciate ("Dateci oggi il nostro pane quotidiano... perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo ai nostri nemici"), salta agli occhi nel suo più comune e diffuso rito svuotato ed ipocrita, lo stesso di quello che anche oggi viene oltraggiato dalle stesse labbra domenicali.
La scelta del Dies Irae con cui la regia ha voluto sottolineare il finale, così, può suonare ambivalente, e sembra nelle prime note concordare con l'iracondia dell'apparente dominatrice, mentre dovrebbe fare da elemento che vi si rivolta contro, come in effetti senza dubbio è, magari ricordando le stesse parole con cui qualcuno che costoro dovrebbero tenere in una certa considerazione, un certo Gesù, commentava il Pater Noster (Matteo 6,7-15): "Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe".