Ronconi e il discorso sulla parola, in attesa della tempesta

Spettacolo "Il seme della tempesta"
Spettacolo "Il seme della tempesta" © Maurizio Bertoni

Ancora una volta il teatro Bellini si presta a trasformarsi in scena aperta, avendo spesso ottenendo in passato risultati ottimi. Questa volta il palco e sottopalco formano un tutto unico, diversamente abitato dai protagonisti.

La Trilogia dei Giuramenti diretta da Cesare Ronconi su testi di Mariangela Gualtieri divide lo spettacolo Il seme della tempesta in tre fasi intitolate "Non ancora, eppure già", "Discorso ai vivi e ai morti" e "Giuramenti": si parte con un concerto, si attraversa l'arcaica figura interpretata da Mariangela Gualtieri ed accompagnata dal coro, e si approda agli accenti del corpo, che fra danza e canto esprime il disagio con linguaggio universale.

La parola, il corpo, la voce

"Abitare lì dove la parola viene rimessa nella vita, nel tentativo di dotarla di nuovo delle proprie potenze": le intenzioni di Ronconi si dichiarano e vengono portate avanti con estremo rigore, non c'è dubbio: ne Il seme della tempesta il telos è quello di portare sul palcoscenico questo "discorso sulla parola" facendolo passare attraverso il corpo, con procedimento selvatico ed arcaico anche nei metodi di avvicinamento e preparazione, avendo effettuato 3 mesi di prove in un bosco in alta montagna durante i quali i protagonisti hanno condiviso quotidianità, studio e training. Il coro oltretutto è composto da giovani che cambiano di città in città, per un maggiore legame con il territorio.



Sembra cominciare in maniera precaria, questo viaggio nella ricostruzione del senso della parola, dove l'abbrivio è la sua cancellazione: i suoni offerti nella prima parte potrebbero essere pensati per fare compagnia ad un movimento che però manca, fornendo base di espressione soltanto ad un danzatore in equilibrio stabile lentamente ondeggiante su piccoli supporti di legno, e videoinstallazioni che trasmettono dal vivo una lenta simbiosi dei corpi.

Ambizioni inevase

Mariangela Gualtieri si erge su di una sorta di incudine, reggendosi con due lunghe canne di bambù a pronunciare il suo discorso per il Verbo (“Terra che così tanto ha amato la parola, da farsi bestia che parla”); a seguire, prendono il sopravvento i gesti (ma a volte le coreografie ricordano soprattutto esercizi di coordinazione) e le voci collettive (la specialità nel complesso riuscita meglio, dalle nenie ai gospel di “Sit down servant”).



L'impressione de Il seme della tempesta tuttavia è che nonostante l'ampio cast e lo sforzo produttivo che si evince dalla scheda dello spettacolo, non ci siano altrettante emozioni portate al pubblico, magari anche a causa di semi lanciati e non coltivati: fra la metafisica, la ribellione, l'intimismo, l'anticonsumismo e il neoprimitivismo, ad esempio, per gran parte del pubblico è come aggirarsi in un quadro di Magritte chiedendosi cosa ci fa lì una pipa. Che poi non lo è. O forse si.

Né aiuta la scelta di una recitazione sempre monocorde e tagliata a versi accentati. Insomma, a volte bisogna chiedersi quanto sia voluta e/o efficace, la circostanza per la quale al termine dello spettacolo molti debbano lasciare la sala facendosi domande sul senso e sui nessi, se non lo hanno recepito già prima del sipario attraverso le note esplicative, oppure grazie ad una propria familiarità con le idee registiche.


Spettacolo: Il seme della tempesta
Visto al Teatro Bellini di Napoli.