L’allestimento di Latella de Il servitore di due padroni, prodotto da Emilia Romagna Teatri Fondazione, il Teatro Stabile del Veneto e la Fondazione Teatro Metastasio di Prato ha creato grande clamore e ha diviso il pubblico, suscitando reazioni forti e contrastanti. La nuova edizione dell' "Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni, riscritta dal regista e Ken Ponzio, affronta e indaga il lato più oscuro e contraddittorio del commediografo veneziano.
"Sono entrato nel lato oscuro, buio del testo di Goldoni. Il quale comincia dicendo subito che c' è una ragazza strana, Beatrice, che si veste in pantaloni e ama suo fratello - spiega Latella - Ecco, io sono partito da lì, da questa storia piena di ambiguità di genere riscrivendo l'originale di Goldoni insieme a Ken Ponzio, un drammaturgo che ha la mia età, ex-attore che sa come usare le parole, perché per attraversare l'anima nera di Goldoni ci vuole una lingua senza fiocchi".
Latella, uno dei registi più innovativi e originali del panorama teatrale italiano contemporaneo si è misurato con un classico senza tempo, regalandoci una versione molto lontana a quella tradizionale e convenzionale di questa opera: la sua lettura ha l’obbiettivo di riaffermare l’assoluta modernità del teatro di Carlo Goldoni, affrontando l’arduo confronto con una delle versioni più conosciute, meglio riuscite e più longeve di questo testo, la storica versione di Giorgio Strehler.
Infatti la riscrittura de Il servitore di due padroni di Latella e Ponzio coraggiosamente si pone in concorrenza diretta con il classico del teatro italiano, l'Arlecchino servitore di due padroni nella versione-capolavoro di Strehler, e lo fa con gusto iconoclasta. L’Arlecchino di Latella si fa chiamare Truffaldino, come nell'originale, indossa un abito bianco, non patchwork, utilizza la lingua italiana e non il dialetto veneziano; l'ambientazione è contemporanea - siamo in hotel di provincia - e lo svelamento di ambigue e complesse geometrie relazionali tra i personaggi, come l'incesto tra Beatrice e il fratello, rendono Il Servitore di Latella un'inquietante commistione di generi, in bilico tra la commedia e il dramma borghese, uno spettacolo dal sapore antico, ma allo stesso tempo molto vicino al nostro quotidiano, in cui la distanza tra ciò che è normalità e ciò che è scandalo non è così netta e chiara: tutto è estremamente ambiguo.
Il servitore di Latella si presenta come una sorta di manifesto provocatorio di una nuova modalità di fare e intendere teatro. Infatti se da un lato l’allestimento di Latella rimane fedele alle convenzioni del teatro tradizionale con una scenografia realistica – la hall di un albergo dal gusto retrò - testimone degli intrecci di personaggi classici, legati tra loro da legami complessi, questa dimensione embrionale che ha una funzione di puro intrattenimento, con battute divertenti e dialoghi incalzanti, viene ben presto superata: assistiamo a una metamorfosi fisica della scena, gli attori smontano le pareti della hall, metafora di uno spettacolo in divenire, in costante cambiamento – per far nascere il nuovo, per farlo emergere occorre distruggere il vecchio. Facendo cadere progressivamente il sipario, il palco, la scenografia ciò che rimane è ancora teatro, un teatro assoluto, minimalista, intenso; forse l’intenzione di Latella è auspicare a un teatro alla Grotowski, in cui eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo si può arrivare all’essenza del teatro, che può esistere senza trucco, costumi, scenografie etc., ma non può esistere senza la relazione con lo spettatore.
Questo processo non è rapido ed è alquanto impegnativo, soprattutto per un pubblico non abituato a compiere questo tipo di sforzo: forse il merito che va riconosciuto a questo modo di intendere e fare teatro è di riuscire ad essere un momento di critica consapevole, di riuscire a mettersi in discussione, per non limitarsi a una recitazione fine a se stessa, ma cercare di renderla viva. Brighella ci svela le regole del nuovo gioco messo in atto, di questo nuovo modo di fare teatro: "le parole sono importanti".
L’Arlecchino di Latella è crudele, poiché la crudeltà è intesa come mercificazione dei sentimenti – problematica estremamente attuale, già presente anche in Goldoni. In questa commedia, in particolare, ognuno è al servizio di qualcosa o di qualcuno: l'amore è continuamente contaminato da interessi, bugie, travestimenti, c’è sempre un secondo fine dietro ogni azione e ogni gesto. Arlecchino, interpretato da un intenso Roberto Latini, spogliato della sua maschera consueta diventa uno dei tanti, anche lui coinvolto nel complicato gioco delle relazioni. Tolta la maschera, è uno in cerca di un'identità. Arlecchino è colui che, dicendo sempre la verità, agli altri appare come un mentitore, come diceva Strehler “Arlecchino è il teatro, la finzione che dice la verità".
Lo spettacolo di Latella ha il merito di essere riuscito a coinvolgere in un contesto istituzionale (produzione Emilia Romagna Teatri Fondazione, Teatro Stabile del Veneto e la Fondazione Teatro Metastasio di Prato) forse la miglior generazione di attori tra i 40e 50 anni – con alcune eccezioni, artisti come Latini, Federica Fracassi, Massimiliano Speziani, Marco Cacciola, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Giovanni Franzoni.
Il Servitore è per Latella un pretesto per fare un discorso sul teatro, per compiereuna riflessione: prendere il testimone della tradizione e rielaborarlo in una forma nuova, per restituire un nuovo Arlecchino, per poter guardare avanti attraverso una nuova generazione di attori.
Per Latella la storia di Goldoni è solo un pretesto, il suo vero obiettivo è mostrare la falsità delle maschere che compongono l’opera e smontarle, mostrando quello che si cela dietro. Cerca di stupire, depistare e confondere il pubblico, destrutturando completamente il messaggio e le certezze che il pubblico ha quando va a vedere un’opera teatrale. La prima parte dello spettacolo, che forse ha solo funzione “preparatoria”, è caratterizzata dal padrone dell’albergo, Brighella, che legge le didascalie del testo di Goldoni in un telefono e quindi corre dal suo posto al telefono di continuo. L’idea è interessante, ma alla lunga risulta un po’ ripetitiva, sempre uguale, rischiando alla fine di diventare noiosa. Forse molte intuizioni registiche dello spettacolo, quando sono portate all’eccesso, con ripetizioni infinte, rischiano di diventare quasi insopportabili. Un esempio è la lettura ad opera di Arlecchino di un brano dell’enciclopedia riguardante la sua figura.
Questa prima farse preparatoria conduce alla seconda parte, in cui l’unica intuizione interessante - anche se frequente in Latella - è il totale smantellamento della scenografia: il palco vuoto rappresenta la disintegrazione completa della visione teatrale universalmente riconosciuta.
Il monologo della cameriera, Smeraldina, sul proscenio che ci urla una serie di ovvietà, banalità e dichiarazioni populiste da facile applauso non fa che rafforzare la frase che Pantalone ripete più volte: “devo pensare”, per poi mettersi davanti alla televisione accesa. Le argomentazioni sono inconsistenti e banali, sebbene l’eccessiva e a tratti fastidiosa enfasi dell’attrice strappa un lieve applauso, forse è da leggere come un segno che ironicamente la mancanza di un messaggio chiaro può comunque emozionare e creare consenso?!Non so se sia da intendere come un segno positivo o negativo.
La continua destrutturazione del messaggio teatrale, lo sfaldamento dei ruoli, l’abbandono delle maschere, fino al vuoto totale, alla scena scarna e vuota, dove gli attori si muovono con imbarazzo, confusamente perché sono falsi in un mondo che li scopre falsi, a lungo andare risulta pesante e ridondante.
È uno spettacolo che vuole scuotere e provocare, e a tratti ci riesce, ma fatica a sintonizzarsi con il pubblico, ha l’intento di distruggere, per poi ricostruire, ma non sempre ci riesce.
Lo spettacolo di Latella sarebbe dovuta risultare una grandiosa e coraggiosa rivoluzione del teatro contemporaneo contro la messinscena classica, ritenuta dai critici teatrali limite e dannazione delle produzioni degli stabili. Purtroppo non è stato così, chi ha faticosamente resistito fino all'ultimo minuto delle due ore e mezza di masturbazioni mentali spesso senza fondamento, più che una rivoluzione è sembrata una violenza gratuita nei confronti del pubblico. La destrutturazione di Latella è così estrema che in alcune scena a fatica si riconduce il racconto al testo originale. Sicuramente il lavoro di Latella è stato a lungo pensato, studiato e progettato nei minimi dettagli e la preparazione tecnica degli attori come Roberto Latini , Massimiliano Speziani, Federica Fracassi e Giovanni Franzoni è indiscutibile, sono bravi e intensi. Detto ciò, c'è qualcosa nella rappresentazione che non ha funzionato: questa forzata ed esasperata ricerca dell'effetto, l'obbligo di trovare un'idea che debba essere per forza originale, senza preoccuparsi che vi sia corrispondenza col testo e questo desiderio di voler stupire e provocare ad ogni costo sono elementi che compromettono irreparabilmente il lavoro di Latella.
La trama rimane lineare e più o meno coerente fino a un certo punto, diciamo nella fase preparatoria, in seguito si ha l’impressione che i personaggi non riescano più a trattenersi: si comportano in maniera sempre più esagerata, esaltata, sembrano la brutta parodia di quello che dovrebbero essere.
Goldoni è un pretesto per affrontare altri temi e altre modalità espressive, ma questa frenesia incontrollabile di novità e sperimentazione si traduce in un “calderone” di argomenti, stili, citazioni, che confonde e disorienta lo spettatore.
Ciascun personaggio costruisce una storia a se stante, si fa avanti con il proprio monologo e non interagisce più con gli altri. Ogni monologo, per quanto possa risultare interessante, non sembra c’entrare col resto: tutto viene presentato di colpo, in maniera diretta, senza alcuna mediazione.
Lo spettacolo risulta essere fin troppo razionale, una concezione senza poesia né sentimenti, che sembra dimenticarsi del proprio pubblico, di dover interagire con esso o forse troppo impegnato a disturbarlo con disagi fisici, come l'emissione prolungata di fastidiose sonorità a bassa frequenza, e ad alto volume.
Si assiste così in diretta alla crisi del teatro contemporaneo che così impegnato e coinvolto nella sua volontà di innovazione, da dimenticarsi il motivo che deve muovere la riforma, il cambiamento.
Il teatro è principalmente relazione, è “superare le frontiere tra me e te”, sembra quasi che in questo spettacolo Latella se lo sia dimenticato, purtroppo.