Duecento anni fa, un Rossini giovanissimo e scatenato elargiva al pubblico veneziano ben tre lavori scritti uno di seguito l’altro: Il signor Bruschino, ossia Il figlio per azzardo andava in scena il 27 gennaio 1813 al San Moisè, mentre di lì a poco, il 6 febbraio, appariva al Teatro La Fenice Tancredi e il 22 maggio al Teatro di San Benedetto L’italiana in Algeri. Presentava insomma un titolo ‘minore’, cioè una farsa, ma anche due dei suoi titoli ‘maggiori’ più celebri ed azzeccati; e se il primo ebbe avvio sfavorevole e poco giro, gli altri due diedero al Pesarese le prime vere soddisfazioni, costituendo i primi indizi d’una fama imperitura. E proprio con Il signor Bruschino, primo appuntamento lirico del Carnevale 2015, si è concluso in bellezza al Teatro Malibran il cammino del progetto varato tre anni fa e coordinato da Bepi Morassi – sotto l’insegna di «Atelier della Fenice al Teatro Malibran» - che ha visto con cadenza annuale la messa in scena delle farse giovanili rossiniane scritte per il San Moisè, poste sotto la regia di alcuni importanti nomi italiani, mentre scene e costumi – compresa la loro realizzazione in laboratorio - sono stati affidati a docenti e studenti della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia (recensioni presenti nel sito).
Ricavato da Giuseppe Foppa ricalcando una commedia apparsa in Francia nel 1809, “Le Fils par hasard” di René Alissan de Chazet e Maurice Ourry, Il signor Bruschino nel suo vorticoso atto unico si mostra una ben oliata macchina scenica, nella quale si innesta il fervido estro musicale di un giovane compositore ormai perfettamente padrone dei propri mezzi: gradevoli invenzioni melodiche, strumentale raffinato, ritmo espositivo incalzante, insiemi costruiti con massima perizia sino all’apoteosi finale del vorticoso “Ebben, ragion, dovere”. Se ne accorse un certo Jacques Offenbach, che trasfonderà queste musiche rossiniane in un’operetta su libretto del Des Forges, “Bruschino”, data con grande successo nel dicembre 1857 ai Bouffes Parisiens.
L’Orchestra del Teatro La Fenice era guidata con giusta leggerezza dal giovane direttore veneziano Francesco Ommassini; concertazione spigliata e garbata, pertinente nei colori e nel ritmo, principiando sin dalla celebre (anche troppo) Sinfonia. Gli interpreti erano in parte già stati coinvolti nelle tappe precedenti, cominciando dalla triade composta dai bravissimi baritoni Omar Montanari nella parte di Gaudenzio – grande attore e misurato interprete, gustosa ed impeccabile la sua cavatina «Nel teatro del gran mondo», e Filippo Fontana in quella di Bruschino padre, e dal soprano Irina Dubrovskaya in quella della bella Sofia. Quest’ultima, tra l’altro, di prova in prova convince sempre di più: voce piena e salda nei centri, che si inerpica nel registro acuto con molta disinvoltura, sebbene affronti un ruolo saturo di passi d’agilità: è così che si guadagna un applauso scrosciante per l’aria «Ah donate il caro sposo». E poi il basso-baritono Claudio Levantino in quella del locandiere Filiberto, il tenore David Ferri Durà nei ruoli del delegato di polizia e di Bruschino figlio, e il soprano Giovanna Donadini nei panni della cameriera Marianna. Unico anello debole del cast, l’approssimativo e modesto Florville del tenore Francisco Brito. Agile maestro al fortepiano, Roberta Ferrari.
La snella regia di Bepi Morassi viaggiava su binari di delicato umorismo; la scena unica - opera di Erika Muraro e Marta Zen, della Scuola di scenografia dell’Accademia coordinata da Giuseppe Ranchetti - prevedeva per la dimora del ricco Gaudenzio un candido ‘pavillon’ a destra e una piccola villa al centro, in un giardino abbracciato da un’alta siepe nella quale si aprivano piccoli e grandi varchi, per i quali i personaggi potevano affacciarsi o entrare; i costumi disegnati da Nathan Marin, sotto il tutoraggio di Paola Cortelazzo (laboratorio progettazione) e di Giovanna Fiorentini (laboratorio realizzazione) apparivano pienamente aderenti all’atmosfera ottocentesca dell’insieme.