Prosa
IL SOGNO DI IPAZIA

Un sogno soffocato dalle tenebre

Un sogno soffocato dalle tenebre
Partiamo subito dalle note negative, così magari si apprezzano ancor più quelle positive, che sono tante: se è vero che c’è stata un’azione di resistenza, per non favorire la diffusione della conoscenza della storia di Ipazia come di questa performance di Francesca Bianco per la regia di Carlo Emilio Lerici su testo di Massimo Vincenzi, ebbene è uno di quei casi in cui questo diventa automaticamente un merito, perché significa che colpisce dei nervi scoperti evidentemente universali, ed il censore di turno non fa altro che dichiarare la sua assimilabilità a qualunque altro Potere che teme di essere visto nudo. Perché questo è il concetto, la denuncia di ogni fondamentalismo, e va ben al di là dell’occasione fornita incidentalmente dal vescovo di Alessandria Cirillo, regnante Teodosio nell’impero d’Oriente, nell’anno 415 d.C., dopo la promulgazione di una legge speciale contro i culti pagani. Il cattolicesimo, dopo tanti anni passati a nascondersi nelle catacombe, diventò religione ufficiale dell’Impero, e l’improvvisa posizione di supremazia mise in luce un aspetto purtroppo molto terreno e violento, quale quello evocato da Ipazia stessa: “Loro non sanno quanto sia pericoloso un Dio partorito dal rancore”. Ma forse non immaginava che sarebbe stato pericoloso fino al punto di farla trucidare per non essersi piegata. E quel Dio sicuramente non era quello vero, lei l’avevo capito bene, come non è un Dio vero nessuno di quelli che vengono invocati da qualsivoglia integralismo religioso, ovunque abiti nel mondo e qualunque etichetta abbia, perché “ogni vero Dio non è quello che ha paura delle parole e che odia i libri”, dice Ipazia, e lo dice dall’alto del suo essere donna, filosofa, astronoma, matematica, scienziata, inventrice del planisfero e dell’astrolabio, insegnante e quant’altro. Diciamolo, questa civiltà che ha saputo rivedere le sue opinioni e creare modelli di uomini e di eroi validi per le generazioni a venire, ancora non ha consegnato il giusto posto a Ipazia fra i martiri che hanno pagato con la vita la loro coerenza in un mondo in cui sottomettere il proprio pensiero significa una sconfitta intollerabile. Basti dire che nessun testo italiano ha aiutato Massimo Vincenzi, a dimostrazione di uno scarso approfondimento riservato alla filosofa, colmato soltanto grazie a testi inglesi ed a lavori spagnoli. Anzi, proprio gli spagnoli hanno provveduto di recente a girare un film, Agorà di Alejandro Amenàbar (vincitore di 6 premi al XXIV Premio Goya), che in patria ha ottenuto successo e milioni di spettatori, e che dopo (appunto…) un bel po’ di tempo in cui nessuno ne ha acquistato i diritti, qui da noi come in Francia (tecnicamente non si chiama censura, certo, ma le parole hanno tante strade per arrivare al loro significato), fra un mese finalmente arriva anche in Italia, distribuito da Mikado. Al martirio di Ipazia e delle Idee, allora, aggiungiamo anche questo: dopo quasi milleseicento anni, l’elenco non era ancora finito. Anzi, aggiungiamo anche il suo essere donna, si, perché forse un qualunque Cirillo Vescovo onnipotente, in qualunque tempo vivesse, troverebbe sempre impossibile far convivere la cultura con il Potere, la politica con la P maiuscola con quella con la p minuscola, ed in questo caso, anche se non soprattutto il riconoscimento del suo rango maschile e la minaccia di un inconcepibile contraltare femminile. La cornice ideale di un Teatro Instabile che fa ascoltare il suono delle parole come attraverso i percorsi delle sue pietre, il rosso-fuoco che avvampa attorno a Francesca Bianco, che si oppone ad esso con il suo vestito candido come una realtà che appartiene solo ai sogni, la luce della notte che trapunta di stelle la scena intorno alla luna, i libri sparsi come membra disfatte da ricomporre nel tentativo di mettere in salvo qualcosa della Biblioteca, l’espressione mai ieratica della Bianco, ma anzi sofferta e colpita dentro da un’ingiustizia che la costringe a diventare un eroe per il suo semplice restare se stessa (“Io non posso stare qui seduta ad aspettare di vedere morire il pensiero“), formano una scena avvolgente intorno a quello che si rivela un classico teatro della parola e delle emozioni.
Visto il 21-03-2010