Ci sono almeno due momenti in cui i 16 protagonisti intonano quella famosa canzone di Nada che ad un certo punto dice Cos’è la vita senza l’amore? E’ solo un albero che foglie non ha più. La vita, e la vecchiaia, senza amore come alberi spogli. ‘Ma che freddo fa’, dunque, è l’aggancio musicale che qui esprime, con poche parole, la condizione fisica e metaforica dell’uomo in alcuni momenti della vita. Soprattutto l’ultima fase dell’esistenza in cui si tirano le somme e si spera di essere circondati dalle persone care, o perlomeno da qualcuno che guardi con te il tramonto sulla pianura appunto, che non è solo l’estensione di terra visibile da una finestra.
Eppure da lì si parte. L’apertura dell’opera è affidata al nutrito cast di over 60, tutti attori non professionisti o con piccole esperienze amatoriali all’attivo, di spalle al pubblico. Seduti di fronte ad una delle vetrate della villa, una casa di riposo nella quale sono stati ‘parcheggiati’ da figli frettolosi e parenti impegnati altrove a mandare avanti le proprie vite, il gruppo di anziani si racconta e si fa compagnia, condividendo ricordi e riflessioni sul proprio passato e su un futuro che può assaggiare tramite la televisione. Anche perché la vicenda è ambientata nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino ma passato alla storia pure per altri episodi, come la protesta di Piazza Tienanmen, simboli della voglia di cambiamento e anticipazione del nuovo millennio alle porte.
Per quanto riguarda le varie interpretazioni, pur partendo dal presupposto che si tratta di esordienti, ciascun attore merita davvero un plauso per la passione e l’impegno, anche solo mnemonico, messo per contribuire alla messa in scena del romanzo di Conti. Ogni personaggio ha poi un proprio tratto peculiare e gioca a metterlo in evidenza il più possibile: il Duca, un nobile napoletano che millanta una giovinezza piena di energia e prodezze anche sessuali; Eugenio, il milanese brontolone che smania di uscire ma che, alla fine, vorrà restare lì, nella villa, perché il mondo fuori lo spaventa; il professor Frusta, produttore di sonetti e poesie di discutibile valore ma prodigioso con l’armonica a bocca (“Bluemoon” e “When the saints go marching in” sono momenti musicali veramente riusciti e coinvolgenti).
Tuttavia, alcune osservazioni sono doverose relativamente all’opera nel suo complesso. Nello spettacolo sembra emergere una certa discontinuità, forse perché non c’è una trama compiuta in senso tradizionale, con un inizio e una fine veri e propri. A ciò si aggiunge anche una sorta di indecisione nella struttura narrativa: un’ora e mezza rappresentano un lasso di tempo ragionevole per un’opera teatrale, ma forse non sono sufficienti per trattare sia le tematiche proprie della terza età come la solitudine, la paura della fine e della malattia, la senilità (pur affrontate con un umorismo a tratti lieve e delicato, a volte più crudo e dissacrante), sia gli eventi storici di fine anni ’80, che rimangono sullo sfondo come immagini di quello che accade nel mondo, ma che non si capisce bene che compito debbano avere nel racconto.