Al Carlo Felice di Genova arriva Il Trespolo tutore, opera buffa del compositore seicentesco Alessandro Stradella. Il sovrintendente Claudio Orazi ha scelto di inaugurare la stagione 2020/21 in modo coraggioso, portando in scena un’opera buffa che debuttò proprio a Genova il 31 gennaio 1679 al Teatro del Falcone, e che da allora non è più stata rappresentata in Italia. Una scelta di svolta e di rottura, quasi un manifesto programmatico sull'intenzione del teatro genovese di battere sentieri meno conosciuti nel prossimo futuro.
Comicità en travesti
La storia narrata nel Trespolo tutore poggia su elementi che eludono gli schemi formali delle rappresentazioni caricaturali, costruendo piuttosto una linea di situazioni assurde che alterano il normale evolversi dell'azione dei personaggi: la comicità che ne deriva appare più moderna, e a ciò contribuisce una musica priva di sviluppi virtuosistici o ricami contrappuntistici, prevalentemente semplice come le arie accompagnate soltanto dal basso continuo (pur in presenza di momenti di grande espressività come nell'aria di Trespolo “Due hore venite”).
L'uso del travesti era prassi normale del teatro del XVII secolo, così come l'utilizzo di uomini per le parti femminili (in questo caso, un soprano e un contralto), ma non si può dire che lo spettatore oggi sia abituato ad assistere a quest'apparente sovrapposizione di figure e voci ormai non più consueta. Ecco che quindi si avverte subito un moto di sorpresa in platea, quando la spilungona in tailleur grigio stile anni 30, con la gonna lunga sotto il ginocchio e il tacco alto, apre le labbra rosse sgargianti e canta con una bella voce piena da tenore. Si tratta di Simona, la governante della casa, della quale gli spettatori delle prime file possono distinguere anche il petto villoso tra i bottoni aperti della camicetta.
Ma con Alessandro Stradella ci troviamo qui nell'epoca in cui la presenza in scena delle donne era limitata, sia per essere talora proibita, sia per un senso estetico che prediligeva la voce bianca e stilizzata (quella dei castrati) per dimensione lirica dei personaggi, sia anche per un uso grottesco in scena: ecco che quindi molte parti musicali femminili venivano interpretate dagli uomini, ed ecco personaggi vestiti da donna che tuttavia conservano la loro voce virile.
E se quindi sua figlia Despina, che lavora come cameriera presso la stessa famiglia, sfodera una nitida voce da soprano come quella che ti aspetti dalla servetta intraprendente e caparbia di tanto teatro dell'epoca, subito dopo arriva Nino, un ragazzone elegante e robusto con i baffetti alla Clark Gable che possiede una inequivocabile voce da contralto. Entrano poi in scena anche Trespolo, il tutore, e la sua pupilla Artemisia, dalla cui vestaglia e da un paio di culottes escono due gambe alla Marilyn Monroe.
Intrecci e suggestioni
In scena Marco Bussi (Trespolo), Raffaella Milanesi (Artemisia), Carlo Vistoli (Nino), Juan Sancho (Simona), Silvia Frigato (Ciro), Paola Valentina Molinari (Despina), tutti ottimi negli ampi recitativi, dall'ampia flessibilità armonica e melodica, presenti nella prima parte dell’opera, e nelle arie incalzanti che sostengono invece il pathos in crescendo della seconda parte.
Il libretto di Giovanni Cosimo Villifranchi è diviso in tre atti, ma a Genova è stato deciso di raggrupparli in due; a dirigere è il maestro Andrea De Carlo, grande esperto del barocco e con ogni probabilità il più grande conoscitore di Alessandro Stradella, il quale padroneggia le intemperanze di una partitura che nel secondo e terzo atto sembra anche anticipare Mozart ed Händel. De Carlo ha proposto una lettura non rigida ma plasmabile, capace di mettere in evidenza contemporaneamente il dramma e la commedia: le due anime di quest’opera.
Le scene di Leila Fteita, i costumi di Nicoletta Ceccolini e la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi hanno creato un microcosmo essenziale, con piani prospettici paralleli evidenziati da scalini e archi di lampadine, dove la plausibilità della vicenda pesava tutta sulle capacità attoriali e canore dei sei protagonisti.
Arredi di scena limitati a una chaise longue e a un candelabro. Abiti a rappresentare un arco di tempo compreso tra la belle époque e la fine degli anni trenta, con piume e strascichi. Degni di nota gli inserti video preregistrati, in bianco e nero, che ogni tanto accendono lo sfondo per rappresentare l'attore in scena, ma impegnato in una serie di smorfie, gesti ed espressioni allo scopo di completare l’effetto di straniamento del personaggio (come nelle scene della pazzia dei due fratelli), rendendo nel contempo la sua vicenda astratta, quasi onirica, e quindi universale e atemporale.
Fra amori incrociati e non corrisposti, atti convenzionali di convenienza e intrecci di tradizione, Villifranchi trasse il libretto da una commedia di G. B. Ricciardi rendendolo apertamente licenzioso; eppure, oltre a momenti intensi e commoventi (su tutti, Nino che scivola nella pazzia), nella resa finale pesano anche momenti simbolici ed inquietanti, come l'altalena su cui quattro personaggi evidenziano la facilità di passare da una condizione di normalità a una patologica; come in un pendolo, appunto.