Modena, teatro Comunale, “Il Trittico” di Giacomo Puccini
UN TRITTICO VERISTA
Il Trittico pucciniano è un'opera raramente eseguita nella sua forma intera, sia in Italia che all'estero ed a Modena è arrivata per la prima volta. I singoli atti sono profondamente eterogenei e, rappresentati consecutivamente, creano difficoltà per la diversità dell'ambientazione e della atmosfera musicale.
“Il tabarro” è una fosca vicenda tragica e passionale, “Suor Angelica” ha un andamento lirico, mistico e religioso, “Gianni Schicchi” è comicità allo stato puro. L'allestimento piacevole di Cristina Pezzoli, coadiuvata dalla sontuosa scenografia di Giacomo Andrico, dai costumi adeguati di Gianluca Falaschi e dalle luci naturalistiche di Cesare Accetta, supera la difficoltà principale, proponendo un'ambientazione unica, l'epoca in cui Puccini componeva, cioè la prima guerra mondiale.
“Il tabarro” si svolge in una splendida scena sghemba, sotto l'arcata di un ponte vista da un'insolita prospettiva. Al centro il barcone di Michele, sullo sfondo il miraggio di una città irraggiungibile per i protagonisti e la loro umile condizione. Il registro scelto è quello del verismo, del dramma verista, senza per questo implicare una denuncia sociale, ma a constatare una condizione claustrofobica ed una sessualità istintiva ed animalesca. Azzeccato il contrasto tra la lentezza che domina l'inizio e la progressiva accelerazione che la devastante passione imprime al plot. Ben sottolineato l'accenno alla commovente vicenda di Bohème, un'autocitazione molto calzante. Giusta la scelta del taglio del monologo finale di Michele, la concitazione della tragedia ne guadagna.
Per converso l'atmosfera di “Suor Angelica” è quella mistica e religiosa del convento, un momento di sospensione dalla vita reale che la protagonista vive come punizione non scelta. La Pezzoli insiste sulla psicologia della protagonista, che nel delirio finale concretizza le immagini mentali delle persone che più le mancano: il figlio, visto nell'età attuale, e la sorella, vista nell'età di quando lei è entrata in convento, due bambini che le vengono incontro a placare tormenti dovuti solo alla grettezza della terribile zia. E in quella bambina-sposa si concentra tutto il delirio mistico della povera suora. Non mi ha del tutto convinto l'eccessivo movimentare la scenografia, con una imponente fontana che entra ed esce e una colonna ballerina che passa in continuazione da un lato all'altro. Interessante la situazione quasi cimiteriale in cui si svolgono le ultime due “stazioni” con quelle croci che oscillano lievemente sul violoncello dominante ed i flauti sostenuti dall'arpa. In questo modo al realismo della prima parte dell'atto si sostituisce una visione onirica. Ottima la distribuzione delle figure nello spazio, la Pezzoli è ben capace di sistemare le masse, i primari ed i comprimari. Il taglio verista dato dalla regia impone alla protagonista di spogliarsi alla fine, quasi novella Giovanna d'Arco.
“Gianni Schicchi” è, musicalmente e drammaturgicamente, l'atto più compiuto. La Pezzoli ha qui svolto un lavoro ancor più completo sui cantanti, rendendo la dimensione corale dell'affresco. I costumi quasi clowneschi si agganciano al tributo che il compositore deve a Falstaff e la capacità della regista di muovere le figure e ordinarle in assiemi affascinanti raggiunge l'apice, calcando sulla comicità con effetti irresistibili, grazie anche al cast. Però l'aria che tutti aspettano, “O mio babbino caro”, resa realistica dagli ammiccamenti di Lauretta verso Rinuccio tesi a rassicurare l'amato che sta cantando fesserie per commuovere il padre, spezzano l'atmosfera di tenero incanto che l'aria porta sempre con sé, anche quando viene utilizzata al cinema come colonna sonora (l'ineguagliato “Camera con vista”). Esilarante il trasporto fuori scena del cadavere di Buoso sulla sedia a rotelle di Simone, tenera l'ultima scena con Lauretta e Rinuccio che sembrano i fidanzatini di Peynet.
Straordinario Alberto Mastromarino, che riesce a rendere credibilmente la solitudine e l'incomunicabilità del silenzioso Michele e la verve comica dello Schicchi. Prova di coraggio per Amarilli Nizza, che interpreta i tre ruoli principali: la cantante ha buoni registri alto e medio ma poco spessore nel basso, e questo crea uno sbilanciamento nell'esecuzione in tutti e tre i ruoli, ma soprattutto in Suor Angelica; il suo fraseggio lascia un poco a desiderare ed il colore della voce non è dei più caldi. Ottima Annamaria Chiuri (la Frugola, la zia Principessa e Zita), in modo particolare nella contraltile partitura della zia e nella facilità di passare da questa a Zita. Azzeccato il Luigi di Rubens Pellizzari, bella voce piena e rotonda e recitazione adeguata con gesti volutamente caricati di espressività; il tenore affronta il primo momento intenso del “Tabarro”, la sua aria “Hai ben ragione, meglio non pensare”, in modo partecipato, con emissione salda. Alessandro Spina è stato un valido Talpa, Alessandro Cosentino un imbarazzante Tinca. Nel secondo atto da segnalare la troppo giovane badessa e la troppo magra Dolcina, ma vocalmente buona la prestazione di tutte le suore. Nello Schicchi debole Antonis Koroneos, con la sua voce troppo piccola: in “Firenze è come un albero fiorito” la sua prestazione è discreta poiché canta da solo, nel resto dell'atto è a malapena udibile, per cui il pubblico lo ha velatamente buato alla fine.
Julian Reynolds ha diretto l'orchestra della Fondazione Arturo Toscanini sottolineando i diversi accenti degli atti, ma in alcuni momenti ha soverchiato le voci, anche le più potenti della Nizza e di Mastromarino. Il coro lirico Amadeus è stato preparato da Stefano Colò.
Pubblico coinvolto ma fastidiosamente plaudente durante l'esecuzione.
Visto a Modena, teatro Comunale, l'11 febbraio 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Goldoni
di Livorno
(LI)