Lirica
IL TROVATORE

DOPPIO TRAUMA

DOPPIO TRAUMA

Francesco Micheli è direttore artistico sensibile e attento a cui non sfugge nulla e che propone un programma ricercato e intelligente. Il Festival 2013 si intitola “Muri e divisioni” e nel programma di sala a sua firma leggiamo: “promemoria per questi tempi difficili che ci invita ad abbattere le barriere tese a dividere, un memento che ci sprona a colmare i divari figli del pregiudizio”. Tradotto nelle opere in cartellone abbiamo visto due muri, oltre quello monumentale dell'Arena di Ireneo Aleandri progettata per il gioco della palla al bracciale: l'acqua-bene primario contesa fino a scatenare guerre nel Nabucco di Gabriele Vacis, un doppio trauma insanabile che popola la mente e la vita di inquietudini e fantasmi per Il trovatore. Un muro sociale e un muro individuale, entrambi da abbattere.

Il trovatore viene proposto in un nuovo allestimento che si caratterizza per un'atmosfera dark e spettrale nella regia di Francisco Negrin. Il buio isola i movimenti e le scene, le luci creano una sorta di flash-back come se la storia narrata procedesse senza continuità, per intervalli, lampi di memoria, episodi isolati estratti da un'emotività ferita e dilaniata da sensi di colpa e demoni mai sopiti originati dal passato.
La scena di Louis Desiré è vuota, due tavoli lunghissimi messi nella lunghezza del palcoscenico come le parallele dei binari che non si incontrano mai, passerelle evidenziate da linee di neon bianchi e rossi a sottolineare momenti di snodo del libretto ma utilizzate per avere un diverso e più articolato piano di azione. Una torre quadrata è addossata al muro da cui pendono sette lampadari bicolori che si accendono come lampi a ritmare incubi e inquietudini. Il muro dello Sferisterio conferma il senso di claustrofobia: impenetrabile, murate le tre aperture centrali costringendo tutti a entrare in scena da botole e pertugi.
I costumi, anch'essi di Louis Desiré sono tutti neri, percorsi da linee rosse: la cucitura posteriore di Leonora, il profilo anteriore del Conte, il collo di Manrico. Fondamentale per la resa del senso dello spettacolo il disegno luci di Bruno Poet, capace di rendere l'incubo gotico che si vuole raccontare.

Francisco Negrin indugia a lungo sull'antefatto: la zingara bruciata sul rogo dal vecchio conte di Luna e la vendetta di Azucena che, invece di bruciare il figlio del Conte, uccide il proprio figlio e da quel momento cresce il figlio minore del Conte come proprio. Due fatti che hanno minato il suo equilibrio interiore: la mente popolata di fantasmi, i giorni bui come le notti, il ricordo della mamma e del figlio bruciati sempre presenti. Azucena è la protagonista indiscussa: nel silenzio dell'inizio è lei, sola, al centro del palco vuoto in preda a movimenti scomposti e sospiri sonori. Lei personifica la vendetta della madre, la quale è spesso presente in scena e lega i protagonisti con fili rossi incandescenti incatenandoli dentro un incubo di fiamme senza alcuna possibilità di salvezza.
Le scelte registiche sono tutte in questo senso: non solo i protagonisti entrano da una botola sulle assi del palco, ma i coristi strisciano dal buio e hanno le facce biaccate come fantasmi. Meno funziona l'utilizzo del lunghissimo palco nell'intera estensione che rende poco agevole seguire le scene in contemporanea ai due estremi e costringe il coro a difficili appiombi.
Un Trovatore di amore e sangue, vendetta e incubo, al punto che le armi del duello dei protagonisti sono le falci della classica raffigurazione della morte e il fuoco all'improvviso serpeggia sul muro dello Sferisterio, su torce, dentro ciotole, sui tavoli. I gesti sono straniati e stranianti e nel finale non si salva nessuno: tutti a terra fra i tavoli incendiati.

Paolo Arrivabeni conduce l'orchestra con mano precisa e suono curato, volutamente evidenziando qualche asperità che esalta la messa in scena; la morbidezza della partitura è resa delicatamente e percepita dal pubblico anche nello spazio aperto, complice una prova di rilevo dell'Orchestra Regionale delle Marche in questi giorni impegnata, oltre che nelle due opere verdiane, anche nel repertorio novecentesco di Britten, a cui il Festival dedica due titoli: Il piccolo spazzacamino al Lauro Rossi (28, 30 e 31 luglio) e Sogni di una notte di mezza estate allo Sferisterio (8 agosto).

Aquiles Machado ha il giusto timbro per Manrico e la voce restituisce l'impeto giovanile del personaggio: pazienza se la Pira è poco squillante (anche disturbata dal rumore del coro che corre per posizionarsi) e se le oscillazioni dell'acuto ampie. Simone Piazzola è uno straordinario Conte di Luna dalla voce morbida ed estesa che non teme le salite in alto e che soprattutto coniuga una grande potenza con il controllo e la cura dei colori (valore aggiunto è la giovanissima età): il baritono imposta il personaggio sulle linee della gelosia con eccellente risultato. Se Susanna Branchini potrebbe avere maggiore controllo dell'interessante e ragguardevole mezzo vocale, tuttavia si è apprezzata la sua Leonora corrusca e scabra per generosità e partecipazione emotiva alle scelte registiche. Ottima l'Azucena di Enkelejda Shkosa, le discese nel grave sono abissali e le salite in acuto piene di forza e luce: è lei la protagonista dell'opera, chiamata a una decisiva e impegnativa prova attoriale superata a pieni voti e con lode. Meno in evidenza il Ferrando di Luciano Montanaro, vocalmente poco omogeneo e scenicamente evidenziato dal cappottone rosso. Giusti, nei ruoli di contorno, Rosanna Lo Greco (Ines), Enrico Cossutta (Ruiz) e Alessandro Pucci (Un messo). Menzione a parte per il coro lirico marchigiano preparato da David Crescenzi, impegnato in una difficile e riuscita presenza scenica (interessanti le zingare in nero come fossero prefiche). Partecipa alla messa in scena la Banda Salvadei Città di Macerata.

Pubblico numeroso, molti applausi sia a scena aperta che nel finale.

Visto il
al Arena Sferisterio di Macerata (MC)