Lirica
IL TROVATORE

Genova, teatro Carlo Felice, …

Genova, teatro Carlo Felice, …
Genova, teatro Carlo Felice, “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi TROVATORE DI SCIOPERI E DI SPADE Il Trovatore è dramma romantico e notturno per eccellenza, un intrigo visionario caratterizzato da tinte fosche e passioni violente e esasperate. Questo inverosimile melodramma, così denso di contrasti e dalla straordinaria ricchezza melodica, è stato più d’ogni altro amato e bistrattato, nonché “massacrato” da una tradizione esecutiva che ne ha enfatizzato oltre misura il colore cupo e zingaresco a tinte forti e gli eccessi vocali e interpretativi dei cantanti. Il Trovatore è tornato al Carlo Felice di Genova dopo anni di assenza, un’attesa che però non è stata completamente soddisfatta a causa degli scioperi, ma anche per la scelta dell’allestimento non particolarmente originale di Stephen Lawless, più tetro che notturno, che non mette in risalto tutti gli spunti dell’opera. La scena di Benoit Dugardyn è spoglia e poco profonda, costituita da grigie pareti mobili che aprono o chiudono visuali per sottolineare i cambi di scena e l’entrata e uscita dei personaggi, creando altresì nicchie stilizzate in cui vengono messi in rilievo i protagonisti. E' caratterizzata da una selva di spade conficcate per terra intorno alle quali si aggirano i personaggi che si trovano quasi “costretti “ a impugnarle, toccarle, estrarle in un movimento scenico sempre più ripetitivo. Come se non bastasse, nell’oscurità incombe una grande spada sospesa a ribadire simbolicamente l’ineluttabile minaccia. L’impostazione simbolico- minimalista stride con le scene di massa di “colore locale“ risolte in modo convenzionale e approssimativo come gli armigeri e gli zingari in costumi tradizionali dai movimenti scontati e poco curati. La regia funziona meglio quando i protagonisti sono isolati. L’uso di luci e quinte è funzionale a ricreare la torre dei prigionieri in cui Manrico e Azucena, vicini ma separati fisicamente, comunicano attraverso la parete con il solo canto donando al duetto “ai nostri monti” maggiore pregnanza. Ben riuscito anche il “miserere” quando le pareti scivolano creando un varco illuminato di rosso e Leonora intravede, oltre una grande croce rovesciata a terra che in parte occulta la vista, rigidi cadaveri riversi sulla scena. Una vista macabra che giustifica l’orrore e l’angoscia di Leonora di fronte all’evidenza della prossima morte di Manrico di cui si ode fuoricampo la voce. Già dall’iniziale “deserto sulla terra” fuori scena si intuisce che Renzo Zulian imposta il ruolo di Manrico sul canto di forza, incisivo e muscolare, sulla ricerca del volume anziché curando i passaggi, chiaroscuri e mezze voci che sono invece essenziali per un poeta trovatore, lirico e appassionato. Essendo concentrato sulla voce anziché sulla varietà d’accento, “la pira” risulta essere il momento migliore, ritmo serrato e do di tradizione compresi. Maria José Siri nel ruolo di Leonora si è distinta per presenza scenica e aderenza al personaggio. La voce non è molto estesa, ma ben modulata e ne deriva una Leonora vibrante, impregnata di estasi dolente, capace di coniugare agilità ad espressione drammatica. Splendido il suo “D’amore sull’ali rosee” cantato ruotando lentamente su se stessa, quasi srotolandosi, per sussurrare contro la parete soffici pianissimi e mezze voci. D’ intensa presenza drammatica l’ Azucena di Trichina Vaughn, la cui voce però non è sufficientemente chiaroscurata, requisito essenziale per la zingara costantemente in sospeso fra allucinazione e lucidità . La cantante evita giustamente di allargare in modo artificioso i centri per rendere suoni più”infernali” privilegiando un’interpretazione sobria depurata dalle scorie di iperrealismo e sguaiataggine di certa tradizione. Vitaliy Bilyy è un Conte di Luna giovane e avvenente, di cui ben suggerisce la violenza, la libidine e il desiderio di sopraffazione dovuti alla posizione sociale. Un Conte dal forte temperamento che ottiene i favori del pubblico, anche se la voce di buona estensione non ha la fluidità di emissione e il legato necessari per dipingere l’estasi e la dolcezza della passione amorosa. Roberto Tagliavini è un Ferrando che canta con gusto e attenzione alle mezzevoci senza scivolare nel becero effetto. Ornella Vecchiarelli è una Ines corretta come il Ruiz di Max de Angelis. Bruno Bartoletti dirige l’orchestra con grande sensibilità, cogliendo la tinta notturna, l’inquietudine e i contrasti dell’opera, con garbo e misura. In questa lettura suoni morbidi e leggeri hanno il giusto rilievo e creano efficaci sospensioni drammatiche come quando con pathos e lentezza, spegne la scena che conclude il racconto di Ferrando lasciando un autentico senso di orrore e mistero. Il coro preparato da Ciro Visco si è particolarmente distinto per musicalità e precisione offrendo una prova di buon livello. Il pubblico ha applaudito con partecipazione l’ultima replica di una produzione andata in scena solo tre volte in un clima di grande tensione e difficoltà oggettive. Ci auguriamo che i conflitti vengano risolti e che sulle prossime produzioni non incomba la triste spada di Damocle di uno sciopero che, per giusto che sia, contribuisce ad affondare il teatro, generando lacerazioni difficilmente sanabili. Visto a Genova, teatro Carlo Felice, il 19/03/08 Ilaria Bellini
Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)