Azucena è presente in uno degli Xenia che Eugenio Montale, poeta emblema del Mediterraneo (tema di questa edizione del Festival) dedica alla moglie scomparsa e pubblica per la prima volta esattamente cinquant'anni fa a San Severino, nel Maceratese (a tutto questo è dedicato l'incontro in programma martedì 2 agosto alle 21,30 presso La Villa a Cesolo di San Severino Marche, in collaborazione con i Teatri di Sanseverino, ospite il direttore artistico dello Sferisterio, Francesco Micheli). Azucena è altresì il personaggio attorno a cui ruota l'allestimento di Francisco Negrin, una donna predestinata che trascina nel vortice del destino tutti: la zingara entra in scena nel silenzio, si guarda intorno, si siede e compie gesti difficili da leggere, rivelando il trauma che ha condizionato la sua vita, un doppio trauma (la morte di sua madre e quella accidentale di suo figlio, per mano sua) che popola la mente e la vita di inquietudini e fantasmi.
Il nero assorbe tutto, il buio isola i movimenti e le scene, le luci creano una sorta di flashback come se la storia narrata procedesse senza continuità, per intervalli, lampi di memoria, episodi isolati estratti da un'emotività ferita e dilaniata da sensi di colpa e demoni mai sopiti, originati dal passato.
La scena di Louis Desiré è vuota, due tavoli lunghissimi sfalsati ma affiancati come le parallele dei binari che non si incontrano mai, passerelle evidenziate da linee di neon bianchi, azzurri e rossi a sottolineare momenti di snodo del libretto ma utilizzate per avere un diverso e più articolato piano di azione. Una torre quadrata è addossata al muro da cui pendono sette lampadari bicolori che si accendono come lampi a ritmare incubi e inquietudini. Il muro dello Sferisterio conferma il senso di claustrofobia: impenetrabile, murate le tre aperture centrali costringendo tutti a entrare in scena da botole e pertugi.
I costumi, anch'essi di Louis Desiré sono tutti neri, percorsi da linee rosse. Fondamentale per la resa del senso dello spettacolo il disegno luci di Bruno Poet, capace di rendere l'incubo gotico che si vuole raccontare.
L'antefatto: la zingara bruciata sul rogo dal vecchio conte di Luna e la vendetta di Azucena che, invece di bruciare il figlio del Conte, uccide il proprio figlio e da quel momento cresce il figlio minore del Conte come proprio. Due fatti che hanno minato, come si diceva, l'equilibrio interiore di Azucena: la mente popolata di fantasmi, i giorni bui come le notti, il ricordo della mamma e del figlio bruciati, sempre presenti. Azucena è la protagonista indiscussa: nel silenzio dell'inizio è lei, sola, al centro del palco vuoto in preda a movimenti scomposti e sospiri sonori. Lei personifica la vendetta della madre, la quale è spesso presente in scena e lega i protagonisti con fili rossi incandescenti incatenandoli dentro un incubo di fiamme senza alcuna possibilità di salvezza. Le scelte registiche sono tutte in questo senso: non solo i protagonisti entrano da una botola sulle assi del palco, ma i coristi strisciano dal buio e hanno le facce biaccate come fantasmi.
Un Trovatore di amore e sangue, vendetta e incubo, al punto che le armi del duello dei protagonisti sono le falci della classica raffigurazione della morte e il fuoco all'improvviso serpeggia sul muro dello Sferisterio, su torce, dentro ciotole, sui tavoli. I gesti sono straniati e stranianti e nel finale non si salva nessuno: tutti a terra fra i tavoli incendiati.
Daniel Oren imprime fiamme e fuoco alla partitura, evidenziando l'impeto del Verdi giovanile ma non tralasciando le morbide ondate sonore dei ripiegamenti amorosi e l'Orchestra Filarmonica Marchigiana è stimolata dagli inviti del direttore.
Il cast è superbo. Piero Pretti ha voce squillante che non teme gli ampi spazi aperti dello Sferisterio e non è disturbata dallo scalpiccio dei passi dei coristi che corrono durante la Pira: il suo Manrico unisce impeto e partecipazione emotiva. Marco Caria è un Conte di Luna dalla voce piena e ben proiettata. Anna Pirozzi si apprezza da subito per doti timbriche ma trionfa per la capacità di tratteggiare con il canto l’evoluzione del personaggio e di risolvere con uguale bravura le colorature brillanti e le pagine più spinte e drammatiche, il soprano ha voce importante ma emessa con grande cura in modo da rendere ogni sfumatura: la sua Leonora sfoggia un registro centrale sontuoso, non teme le salite in acuto e le agilità sono sicure e salde, come le discese nel grave sonoro e vellutato. Si conferma ottima l'Azucena di Enkelejda Shkosa (unica già presente nel cast del 2013), le discese nel grave sono abissali e le salite in acuto piene di forza e luce: è lei la protagonista dell'opera, chiamata a una decisiva e impegnativa prova attoriale superata a pieni voti e con lode e la cantante risponde con pieno merito. Con loro bene in evidenza il Ferrando di Alessandro Spina. Giusti, nei ruoli di contorno, Rosanna Lo Greco (Ines), Augusto Celsi (Ruiz) e Alessandro Pucci (Un messo). Buona la prova del Coro lirico marchigiano preparato da Carlo Morganti, impegnato in una difficile e riuscita presenza scenica. Da menzionare i due bravissimi mimi su cui poggia la regia, Adua De Candia e il giovanissimo Leonardo Buratti.