Seconda opera in cartellone per questa edizione del Macerata Opera Festival targato 2020, Il Trovatore di Giuseppe Verdi vede schierati Coro e Orchestra lungo tutto l’enorme palcoscenico dell’arena, così da poter rispettare le norme sul distanziamento.
Ingressi programmati vengono pensati invece per i solisti, tutti molto bravi nell’interagire fra loro con movenze ben calibrate e attraverso scambi di sguardi che, a tratti, fanno scordare al pubblico l’assenza di una messa in scena tradizionale. Trascurabili, invero, le proiezioni sul muro di fondo di alcune fotografie contenenti immagini di cieli più o meno luminosi, accompagnate dalla presenza in scrittura capitale, ogni qual volta compaia nel libretto, della parola “CIELO” sui tre display luminosi posti a bordo palco.
Letture da approfondire
Vincenzo Milletarì dirige con grande energia l’Orchestra Filarmonica Marchigiana, sempre attento a mantenere un grande equilibrio d’insieme, che possa superare le difficoltà dettate dal distanziamento, e ad accompagnare col suo gesto preciso e volitivo i cantanti.
L’interpretazione che ne fuoriesce, comunque, non va molto oltre la tradizione: le sonorità appaiono talvolta un poco spinte, anche a fronte di tempi ora dilatati ora più concitati, e qua e là fa capolino qualche deriva retorica di troppo. L’impressione che ne scaturisce è quella di una lettura che, al netto di alcuni apprezzabili passaggi ben chiaroscurati o qualche ricercato ripiegamento lirico, non riesca a scavare bene in profondità.
Da Manrico a Leonora
Luciano Ganci nei panni di Manrico brilla per facilità di emissione e per bellezza timbrica, ma a tratti palesa qualche limite nel registro superiore forse non sempre perfettamente sostenuto. Per il resto c’è tutto, la sanguigna baldanza richiesta dal ruolo, la bellezza delle mezzevoci, la potenza vocale.
Roberta Mantegna è una Leonora dallo strumento non enorme, ma tutto sommato ben proiettato e dotato di un solido registro centrale; qualche difficoltà nella salita in acuto e qualche genericità nel fraseggio appaiono problemi facilmente superabili.
Ottima l’Azucena di Veronica Simeoni il cui fraseggio, invece, si evidenza come uno dei migliori della serata: screziate le bruniture di un timbro che si rivela ad ogni passaggio sempre più affascinante, convincente la gestualità che, attraverso poche ma puntuali attenzioni, contribuisce non poco a rendere la complessità del personaggio, qui ben tratteggiato come quello di una donna dilaniata da un dolore che va oltre le colpe e le vicende contingenti.
Meno a fuoco il Conte di Luna di Massimo Cavalletti: la voce è ampia e bella, ma la prova risulta un poco generica anche a fronte di una intonazione a tratti non ineccepibile.
Buone le parti di contorno: Davide Giangregorio è un Ferrando di potenza non enorme ma sempre perfettamente calibrato, Fiammetta Tofoni una Ines di tutto rispetto, Didier Pier un Ruiz più che adeguato. Con loro Massimo Mandolozzi nei panni del Vecchio Zingaro.
Complessivamente più che discreta la prova del Coro Lirico “Vincenzo Bellini”. Alcuni posti vuoti in arena non hanno impedito al pubblico di applaudire con entusiasmo e di riservare a tutti un’ottima accoglienza.