Il trovatore ebbe la prima rappresentazione assoluta il 19 gennaio 1853 a Roma, in quel Teatro Apollo, demolito nel 1889 per fare posto al lungotevere Tordinona, reso splendido dagli affreschi di Filippo Bigioli raffiguranti Stagioni, Mesi, Ore e Carri delle divinità. Ma l'opera ha avuto pochi allestimenti nella città che la ascoltò per la prima volta: il preciso programma di sala riporta, negli ultimi venticinque anni, soltanto le nove recite al Costanzi nel 2001 e le sei recite a Caracalla nel 2004. Dunque quello attuale, coprodotto con De Nationale Opera di Amsterdam e Opéra National de France di Parigi, risultava allestimento molto atteso e i numeri del botteghino hanno confermato l'interesse dei romani; peraltro alla recita a cui abbiamo assistito l'età media era particolarmente bassa per la presenza di tanti giovani, coinvolti dalle passioni assolute del Trovatore.
Dalle considerazioni riportate nel programma di sala parte il regista Alex Ollé di La Fura dels Baus: “Come affrontare Il trovatore oggi? Come superare il tremendo ostacolo dell'inverosimiglianza? Come rendere credibile questa storia assai strana di odio, confusione, pazzia, devozione, sconfinato amore disposto a ogni sacrificio? Abbiamo cercato la risposta nella stessa insensatezza della guerra. È la guerra, e specialmente una guerra tra fratelli come questa, ciò che permette di comprendere ogni passione smisurata.”
I Fureri sembrano avere cambiato percorso: sono ormai lontani i tempi del Ring fiorentino o dell'Aida veronese del centenario, dove le proiezioni catturavano tutta l'attenzione e grandi macchine futuristiche si muovevano in scena. Messi da parte gli effetti speciali e le provocazioni, i catalani si concentrano su alcuni nodi dell'azione mettendoli in primo piano e costruendo attorno a essi la parte scenotecnica e la drammaturgia.
Questo Trovatore è ambientato in uno spazio unico creato da Alfons Flores, delimitato sui tre lati da specchi oscuri che riflettono la platea e il palcoscenico, moltiplicando le presenze e allungando le ombre. I diversi ambienti, come anche i conseguenti stati d'animo, sono ricreati con parallelepipedi che, sostenuti da funi, salgono e scendono e, grazie alle splendide luci di Urs Schonebaum, vengono illuminati in vari modi. I costumi di Lluc Castells situano l'azione nel primo Novecento, all'epoca della prima guerra mondiale. Ollé, coadiuvato da Valentina Carrasco, si concentra sull'odio insito in ogni personaggio e se ne serve come elemento di collegamento. I rapporti tra i protagonisti sono quelli delineati dal plot e lo spettacolo è ben comprensibile e cattura l'attenzione dello spettatore. L'atmosfera della guerra è perfettamente resa con i soldati nelle trincee; gli interni sono ricreati con semplici movimenti verticali dei parallelepipedi. Straniante l'inizio coi soldati con le maschere antigas. Efficace il finale con il Conte che uccide Manrico con un colpo di pistola in scena e Azucena che si suicida con la medesima arma.
Dopo le defezioni di Marcelo Alvarez e Fabio Sartori, Stefano Secco affronta il ruolo di Manrico con capacità di accento e di fraseggio; la “pira” vorrebbe un sonoro squillo e forse una maggiore potenza vocale ma è nelle pagine più introspettive e intime, dai piani perfettamente calibrati e caratterizzati da una espressiva morbidezza, che il tenore ottiene i risultati migliori. Tatiana Serjan ha presenza scenica e temperamento, ma la sua Leonora ha voce poco controllata, soprattutto quando è impiegata in arcate grande ampiezza, e dizione un po' confusa: anche per lei le pagine più introspettive e intime sono le migliori. Simone Piazzola si conferma come uno dei migliori baritoni verdiani della sua generazione, considerando che è giovanissimo: il suo Conte di Luna è un cattivo raffinato e affascinante, la linea vocale è curata e l'emissione fluida e morbida. Ekaterina Semenchuk è l'unica del presente cast che ha cantato anche nel debutto parigino alla Bastille e la sua Azucena è praticamente perfetta per presenza scenica e vocalità: basti citare il canto in piano-pianissimo Sui nostri monti ritorneremo che rende la scena estraniata e quasi surreale. Convince il Ferrando di Carlo Cigni. Reut Ventorero (Ines) e Aleandro Mariani (Ruiz) provengono dal progetto Fabbrica – Young Artist Program del Teatro dell'Opera di Roma e uniscono la capacità di muoversi in scena in modo molto teatrale a una vocalità adeguata. A completare il cast il Vecchio zingaro di Francesco Luccioni e il Messo di Giordano Massaro. Il coro è stato ottimamente preparato da Roberto Gabbiani.
Jader Bignamini è giovane e promettente e conduce l'orchestra con gesto sicuro, raccordando senza sbavature buca e palco, ma i tempi risultano monotoni e manca quel fuoco, quell'odio potremmo dire partendo dalle note di regia, insomma quella tinta drammatica e impetuosa, alternata all'intimismo lirico dei momenti di ripiegamento sentimentale, che caratterizza la partitura verdiana.