Il Ravenna Festival si segnala da vent'anni come una delle realtà più interessanti della scena culturale italiana per la particolarità e l'alto livello delle proposte, per la cura organizzativa, per l'ambientazione in luoghi suggestivi e per il filo conduttore che lega gli eventi in cartellone, mai scontato né banale ma sempre raffinato. Nel 2003 il titolo del Festival era “Ravenna visionaria, pellegrina e straniera”, indagando il presente ed il passato della città eponima della rassegna, per cui Cristina Mazzavillani aveva ideato un Trovatore ambientato a Ravenna, grazie all'utilizzo di proiezioni che sostituivano la tradizionale scenografia.
La stessa proposta a Jesi ci è parsa meno efficace. In primo luogo il pubblico marchigiano si era abituato ben prima alle proiezioni come scenografia (i diversi, memorabili e pluripremiati spettacoli allo Sferisterio sin dai primi anni Novanta), ma il discorso vale anche in ambito nazionale: il Ring fiorentino della Fura dels Baus ha spazzato via come obsolete le proiezioni precedenti. In secondo luogo l'ambientazione romagnola, che pare perfetta a Ravenna (creando un'immersione totale dello spettatore nei luoghi), è decontestualizzata (rectius fuori contesto) in ogni altro luogo.
Questo Trovatore vive in spazi suggestivi, prevalentemente notturni, dove terra ed acqua si confondono sotto un cielo grigio o nero; le uniche luci paiono quelle degli opifici, una raffineria con torri che si elevano fra serbatoi arrugginiti; ai resti antichi degli spazi voltati e pavimentati coi mosaici si contrappongono i capannoni cadenti abbandonati, relitti di una civiltà industriale già sorpassata che ha lasciato tracce evidenti, non meno affascinanti delle antiche civiltà ravennati. Le marine sono deserte, i capanni dei pescatori paiono abbandonati. Le centrali termiche anch'esse paiono vivere di vita autonoma, senza nessuno a lavorarci e a controllarle.
Lo spettacolo è dominato in senso invasivo dalle proiezioni, al punto che i cantanti divengono presenze evanescenti, come emergenti dalla nebbia, individualità ectoplasmatiche in mezzo alle immagini (il coro è sempre invisibile, come nel lungo inizio del second'atto che risulta non poco noioso): voci che galleggiano in mezzo alle immagini, nei luoghi resi fotograficamente. Le immagini vengono proiettate su una teoria di velatini uno davanti all'altro che si sollevano a volte per rivelate le presenze fisiche dei cantanti, investiti però dalle immagini frontali e quindi mimetizzati nel contesto scenico.
Immagini fisse o in movimento lento ritraggono luoghi di Ravenna, da una cripta con mosaico a una folta pineta, da edifici di archeologia industriale alla raffineria petrolifera. Locations che non sono prefettamente rispondenti alle esigenze del libretto e che tuttavia sono suggestive e di particolare effetto (le belle immagini fotografiche di Enrico Fedrigoli sono state visualizzate sotto la direzione di Paolo Miccichè). A queste si sovrappongono rami spinosi, grate parzialmente mangiate dalla salsedine, nuvole che salgono dal basso come nella storica sigla RAI di inizio e fine trasmissioni (sul finale del rossiniano Guillaume Tell).
Quel che meno ci ha convinto è che i cantanti, nella maggior parte delle scene, si intravedono tra le immagini in proiezione e non si riesce a cogliere l'azione né a seguire il plot. Poco aiutano i costumi storici di Alessandro Lai e le belle luci colorate di Vincent Longuemare.
Non condivisibile la scelta di microfonare le voci dei cantanti in modo da poterle amplificare oppure aggiungere effetti di eco in alcuni passaggi: il piacere della lirica dal vivo è proprio la naturalità della voce, senza alcun effetto speciale artificiale.
Nicola Paszkowski ha diretto l'orchestra giovanile Luigi Cherubini con mano sicura, riuscendo ad amalgamare buca e palco (giovani solisti e coro), cosa non facile in questo allestimento. Ha privilegiato tinte forti ma non forzate, riuscendo a trasmettere il senso di un Verdi romantico e introspettivo, in linea con le scelte registiche, eppure risorgimentale. Molto bello il suono dell'orchestra, pulito e dosato nei volumi.
Il cast è formato da giovani cantanti, soluzione non solo condivisibile pienamente ma decisamente apprezzabile nei teatri di tradizione, che debbono essere luogo ed occasione per consentire a bravi giovani talenti di emergere. Nel ruolo del titolo Antonio Coriano ha voce di spessore, seppure con alcune forzature nelle punte in alto; il fraseggio è poco morbido; il tenore dovrebbe curare maggiormente la prestazione attoriale in un ruolo che consente di esprimere una intensa caratteritalità e una amplissima gamma di emozioni. Anna Kasyan è una Leonora dalla giusta presenza fisica e dalla voce importante ma ben regolata, con acuti controllati; un approfondimento della dizione certo la porterà ad ottimizzare la resa vocale. Dario Solari ha bella e appropriata voce per il conte di Luna, ma su tutti ha spiccato l'intensa Azucena con capelli punk di Anna Malavasi: la voce è scura e morbida, estesa e a fuoco in ogni registro, corposa nel grave, luminosa nel centrale e solida in acuto; impetuosa la presenza scenica. Ottimo il Ferrando di Deyan Vatchkov, più debole la Ines di Laura Baldassarri. Con loro Giorgio Trucco (Ruiz e un messo) e Diego Manto (in vecchio zingaro). Il coro del teatro Municipale di Piacenza è preparato da Corrado Casati.
Teatro esaurito, pubblico molto generoso sia durante la recita che alla fine.