Rieccolo dunque, “Il trovatore” già visto al Regio di Parma nell’ottobre 2010, e poi nel dicembre 2011 al Teatro La Fenice: le due fondazioni, cioè, che avevano allora prodotto insieme questo spettacolo. Presso il maggiore palcoscenico veneziano anche questa volta le recite erano tutte esaurite, ennesima conferma di una strategia vincente che ha portato La Fenice ad essere nel 2013 il quarto teatro lirico italiano per biglietti venduti (esattamente 96.092), dietro l’irraggiungibile Arena di Verona (476.574), La Scala di Milano (202.696), il Regio di Torino (128.632, citiamo dati ufficiali). E, ciò che più conta, potendo esibire per ben tre anni di seguito bilanci in sostanziale pareggio, grazie anche ad una strategia che vede una notevole frequenza degli spettacoli – circa 120 all’anno – ma pure il controllo a monte dei costi, un’elevata produttività delle masse artistiche e tecniche, e soprattutto il ricorso ad un sistema produttivo ben noto ai frequentatori delle istituzioni liriche di Oltr’Alpe: varare cioè in ogni stagione una quota di nuove produzioni, alternandole con la ripresa di quelle degli anni precedenti. In tal modo, l’ammortamento dei costi iniziali è sicuro; ma nondimeno si vorrebbe osservare che alla Fenice si sta per arrivare alla centesima replica de “La traviata” del tandem Carsen/Kinmonth, riproposta ogni anno dalla reinaugurazione del 2003: il segnale per pensare qualcosa di nuovo, o no? Invece, dopo l’ennesima riproposta di questi stessi giorni in alternanza con “Il trovatore”, questa ormai anziana Violetta la ritroveremo tale quale nuovamente tra novembre e dicembre, poi tra febbraio e marzo 2015, e ancora tra aprile e giugno, ed infine tra agosto e settembre 2015. Con la buona scusa di Expo Milano, però.
Ma veniamo a questo “Trovatore”, che nella visione del regista Lorenzo Mariani e del scenografo/costumista William Orlandi restituisce allo spettatore quella peculiare e fascinosa atmosfera notturna, e quel carattere onirico che pervadono tutta la partitura, procedendo con passo felpato nell’alveo della più tranquilla tradizione, senza i soliti travisamenti contemporanei; come sembrerebbe indicare pure l’insolita adozione dei due grandi sipari di sapore ottocentesco, appaiati o singoli, il cui scorrere come usava un tempo scandisce ed agevola i cambi di scena. Sipari che quando s’aprono, rivelano dietro scene ampie e desolate, che restituiscono un senso come di vuoto, spazi dai tratti rarefatti dove spesso campeggia sullo sfondo un immane cerchio lunare ora reso come alone argenteo, pronto ad armonizzarsi al racconto di Leonora, ora rosso come il fuoco che riscalda il campo dei gitani. Qualche oggetto dai tratti allegorici – una marmorea scultura equestre, un’accozzaglia di armature raccattate sui campi di battaglia, due alti cipressi – sono bastevoli a caratterizzare ogni scena; ed alla fine, la caduta subitanea del sipario crea una massa informe che sottende la scena del carcere. Atmosfere algide e nebulose, rafforzate dalle taglienti e livide luci del bravissimo light-designer Christian Pinaud. Quanto ai costumi, molto eleganti e pensati palesemente come testimonianza d’epoca, creano un equilibrato contrasto a questa visione un po’ minimalistica e monocromatica che richiama non poco, nel suo insieme, certe memorabili creazioni di Pier Luigi Pizzi.
Il fascino tutto particolare del “Trovatore” sta nel fatto che melodie languide e sfumate, di sapore belliniano e dal colore lunare, si alternano con momenti in cui prevale una passionalità carnale e quasi primitiva, tipica di un Medio Evo romantico e favoloso. Atmosfere non facile da rendere, ma in queste recite veneziane è riuscita l’ottima la direzione orchestrale di Daniele Rustioni - sostenuto da una compagine scattante ed ineccepibile – per la quale non ci sono discussioni: ogni anfratto della partitura ha ricevuto giusta attenzione, ogni colore ha trovato evidenza, ogni raffinatezza strumentale è stata resa a dovere; e pare che finalmente le cabalette abbiano trovato il loro sacrosanto spazio, spesso a torto negato. Si possono magari mettere in discussione certe scelte agogiche, qua e là non canoniche; ma non certo l’efficace visione generale del giovane maestro milanese, pervasa da un largo respiro, e intrisa di quel senso del racconto – un racconto ricco di serrata e asciutta tensione drammatica - che infonde pienezza ad una esecuzione teatrale. Dopo il grande successo veneziano di due anni fa nei panni di Otello, Gregory Kunde era atteso al suo debutto quale Manrico, e le aspettative direi non siano andate deluse: parte di tenore lirico spinto, per un cantante naturalmente dotato e ben addestrato come lui, non ha posto insidie. A parte l’invidiabile colore del timbro tenorile, e l’emissione calda e pastosa, il resto l’ha fatto la buona padronanza dei propri mezzi, specie nel più che convincente fraseggio, la spontanea comunicativa, la naturale freschezza vocale, il magnetismo interpretativo. Inutile dire che dopo «Di quella pira» è venuto giù il teatro; ma il meglio, a parer nostro, stava comunque altrove, cioè nelle belle screziature e nelle ricercatezze di «Deserto sulla terra», di “Mal reggendo all’aspro assalto», di «Ah sì ben mio». Pure Kristin Lewis – che si è alternata nelle recite con Carmen Giannattasio – possiede senza ombra di dubbio vivida freschezza ed una femminilissima, setosa ricchezza timbrica, oltre che una voce omogenea e ricca nel registro centrale, tutte doti messe in mostra in una Leonora decisamente persuasiva. Sia nel racconto passionale di «Tace la notte placida», sia nell’avviarsi ad indossare il velo monastico, sia nei ripetuti confronti con i due rivali in amore, la cantante americana appare pienamente espressiva, calibrata nella linea vocale, salda e sicura nelle agilità delle cabalette. Forse la grande mattatrice della serata è stata però il mezzosoprano Veronica Simeoni: una Azucena di classe decisamente superiore, dalla voce insolitamente chiara e flessuosa, priva di certe oscene cavernosità che fanno scadere il personaggio nel grottesco. E poi, che dire della ricchezza di sfumature e di tinte, della grande finezza nel dosare le oscillazioni psicologiche (verrebbe da dire psicotiche) della zingara; e del continuo rispetto delle annotazioni tra ‘forte’ e ‘piano’ – Verdi non ha lesinato nello spartito le raccomandazioni - che caratterizzano soprattutto «Stride la vampa» (dove pienamente si abbandona al ritmo puntato dell’orchestra), ma anche i due dialoghi con Manrico e quello con i feroci armigeri del Conte. Brava, e tanto, anche nel restiturci le trepide emozioni dell’ultimo rassegnato canto di «Addio ai nostri monti». Quanto ad Artur Rucìnski, ora convinceva, ora un po’ meno: perché se la voce del baritono polacco appare importante e ben timbrata al centro, gli acuti facili, il legato pertinente, di converso tanta dote non sempre viene ben amministrata come si dovrebbe. Perfetto nei panni del malefico Francesco de “I masnanadieri” che abbiamo assai apprezzato due anni fa (sempre qui a Venezia), nel ruolo del Conte di Luna parte alla ricerca di eccessiva espressività, e per troppa veemenza finisce col premere un po’ sull’acceleratore. Insomma, mette alla sferza l’abbondante potenza vocale che prende il soppravvento sul controllo del personaggio, che risulta spesso enfatico e ridondante, di modo che una pagina ricca di sfumature come «Il balen del suo sorriso» manca dell’adeguato svolgimento sentimentale. Lo stesso si può dire nei confronti con gli altri protagonisti e nella scena dell’accampamento, tutti momenti che sembrano scappargli di mano.
Nulla da eccepire nel Ferrando di Roberto Tagliavini, che si disimpegna lodevolmente nel racconto d’apertura; bene la Ines di Lucia Raicevich, il Ruiz di Ciro Passilongo, lo zingaro di Emanuele Pedrini, il messo di Eugenio Masino. Giusti e doverosi apprezzamenti, oltre che all’orchestra di casa, al coro ben preparato da Claudio Marino Moretti.