Non capita di frequente che un'opera di grande repertorio – prendi Il trovatore in scena al Teatro La Fenice di Venezia – dia l'occasione di tre debutti in ruoli basilari. In questo caso, per artisti già ben lanciati in carriera, ma che sinora non si erano mai cimentati con alcuni capisaldi del repertorio verdiano.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Un trio di forte valenza teatrale
Antonio Poli affronta infatti qui per la prima volta l'infuocato ruolo di Manrico, Francesca Dotto quello di Leonora, Mattia Olivieri quello del Conte di Luna. Bilancio finale, senz'altro positivo. Il tenore viterbese canta con poetica morbidezza ed energia al tempo stesso, fraseggio variato ed eloquente, buone sfumature e buoni legati. E si lancia in acuti limpidi e squillanti, ma senza cadere in eccessi muscolari. Un guerriero visto diversamente dal solito, virilmente introverso e melanconico.
Il soprano trevisano punta sulla sua vocalità sobria e calibrata, dal timbro soave e lirico; una vocalità che mantiene intatta una freschezza adolescenziale, accompagnata da una linea di canto impeccabile, consegnandoci così una figura femminile affettuosamente poetica e intimamente lirica.
Quanto al baritono modenese, è innegabile che la formazione prevalentemente belcantistica – molto Mozart, Rossini e Donizetti alle spalle - lo porti a definire un personaggio fosco, arrogante, ma senza troppo spingere in aggressività. Un Conte vendicativo e fiero ma non malvagio, finemente calibrato e modulato, tramite una emissione eloquente, solida, ben variata.
La zingara, gli armigeri ed il loro capo
Il mezzosoprano romeno Carmen Topciu consegna un'Azucena di forte presenza scenica, e dalla considerevole varietà di colori. Ma dizione e chiarezza di espressione lasciano un po' a desiderare. Simon Lim è Ferrando: sbriga bene la sua aria iniziale, e procede poi con vibrante espressività. Bene l'Ines di Lucia Raicevich; Ruiz è Dionigi D'Ostuni. Il coro preparato da Alfonso Caiani offre una prestazione corretta ma non entusiasmante.
Concerta e dirige Francesco Ivan Ciampa. Intensità d'espressione, calore, impeto, nervose pulsazioni sono assicurati. Come pure saggia cura dei dettagli e la piena cantabilità dell'orchestra, ottenendo una bella resa narrativa. Al massimo, gli si potrebbe rimproverare qualche tempo un po' allargato. Quisquilie, in fondo.
Un allestimento rarefattosi nel tempo
Lorenzo Mariani si trova a portare in scena per l'ennesima volta il fosco lavoro verdiano, partendo da una coproduzione che vide la luce nel 2010 al Regio di Parma, e in seguito presentata alla Fenice nel 2011 - in apertura di stagione - e quindi nel 2014. Per la ripresa di giusto due anni fa, a causa delle restrizioni Covid 19 lo spettacolo dovette esser radicalmente ripensato, rinunciando anche alle scene e costumi originali di William Orlandi, modificati all'uopo.
E' lo stesso che ora ci viene riproposto pari pari: un palcoscenico digradante e sgombro, visioni di plumbee nubi sullo sfondo, un mulinare di tavoloni e sgabelli bianchi e neri, un profluvio di candelabri accesi. I personaggi dai vestiti anonimi, e moderni; coro abbigliato di nero, solo un fazzolettone rosso in testa quando interpreta la folla dei gitani.
Un po' incongrue appaiono Leonora e Azucena nei loro abiti neri da sera, rutilanti di pailletes. Azucena ha una lunga sciarpa vermiglia che scende sul fianco, a segnarla come zingara. Pure Manrico ne indossa una, mentre il Conte di Luna ce l'ha bianca; anch'essi vestono di scuro, molto eleganti. Per fortuna sono abbigliati in modo più consono che nell'edizione di due anni fa.
Quanto alla regia in sé, alle prese con un allestimento di fatto pressoché semiscenico, segnato da rapidi cambi di scena a vista, Mariani deve giocoforza limitarsi a impostare una efficace recitazione, regolare entrate ed uscite, far scorrere il racconto in maniera logica e lineare. Le luci sono di Fabio Barettin.