La fondazione Arena di Verona è l'unico ente lirico che, nell'anno del bicentenario verdiano, propone l'intera trilogia popolare in successione mensile: a giugno ha debuttato Traviata (recensione presente nel sito), a luglio ha debuttato Trovatore, in agosto debutterà Rigoletto. Il trovatore viene proposto nell'allestimento di Franco Zeffirelli (regia e scene) e il binomio Arena-Zeffirelli identifica una precisa cifra espressiva basata su una visione kitsch-kolossal dell'opera che parte dal dato storico per confonderlo con suggestioni varie privilegianti l'immagine. Una modalità che riscuote sempre successo presso il pubblico veronese ma che indubbiamente segna il passato, non solo a confronto con la nuova Aida dei Fureri (recensione presente nel sito), sia in senso formale-tecnologico che sostanziale-interpretativo.
Questo Trovatore è giocato sul contrasto tra il mondo solitario, buio e lunare con riverberi metallici (armi, muri, animi) dove vive il Conte di Luna (nome omen) e il mondo festoso, aranciato, sovraffollato e festante degli zingari. Tre alte torri cilindriche dominano il palco, realizzate con la sovrapposizione di armi medioevali come i cancelli che scorrono ai lati a guisa di sipario. In due occasioni la torre centrale si apre con un meccanismo tipico delle macchine d'altare dell'area germanica, svelando l'interno: prima un'abside di cattedrale gotico-fiammeggiante, poi una prigione. Agli estremi lati del palco verso la platea due enormi statue di combattenti in armatura nel momento in cui uno uccide l'altro trapassandolo con la lancia o tagliandogli la gola con la spada. L'armatura non consente di identificarli e distinguerli: potrebbero essere addirittura fratelli, come accade nell'opera. I protagonisti si muovono su un declivio che ricorda le vasche di Pamukkale con riverberi metallici nero-grigiastri.
I costumi di Raimonda Gaetani sono caratterizzati da colori moderni e fluo e fanno largo uso di velluti, paillette, piume, bordature e ricami e risultano d'effetto anche a grande distanza. Anche per merito delle belle luci, che consentono di delineare il colore caldo per l'amore e il colore freddo per la gelosia e l'odio, la regia risulta ben delineate. Però i movimenti scenici sono ridotti all'indispensabile e la gestualità è stereotipata fino al limite: nella scena del giardino non c'è nessuna tensione, quando Leonora si avvelena Manrico resta indifferente e distante. L'aspettativa del pubblico è già soddisfatta con la lunga sfilata di vessilli, uomini a cavallo, soldati in armi, una teoria processionale che più volte attraversa la scena da una parte all'altra e che si ripete con gli incappucciati che recano in mano grandi ceri. Eccessivo è parso il plateale suicidio di Azucena nel finale.
L'opera viene presentata con gli inserimenti della versione francese: le coreografie di Lucia Real & El Camborio scelgono un nacchereggiante flamenco che, sullo sfondo degli scialli frangiuti della scena, pare preso pari pari dalla Carmen zeffirellinana-areniana, alternato a una buffa pantomima di uomini in armatura e a una più convincente carola medioevale. Non pregnante l'apporto di Renzo Musumeci Greco come maestro d'armi.
Giuliano Carella dirige alternando momenti di larghezza (forse a uso dei cantanti) ad altri in cui i tempi sono più giustamente osservati sotto la mano precisa del direttore. L'attenzione ai volumi del suono non va a discapito dei colori che privilegiano la componente elegiaca e malinconica ma finendo per non scolpire la partitura e le sue vibrazioni emozionali.
Hui He è una Leonora intensa ed emozionalmente convincente, che trasmette tutti i risvolti sentimentali del personaggio, particolarmente apprezzata per la morbidezza delle mezzevoci, la precisa bellezza dei filati e la duttilità di un mezzo ricco di colori. Carlo Ventre conduce onorevolmente in fondo la prova: il suo Manrico manca di eroismo e, se non emerge particolarmente per specificità di voce o interpretazione, tuttavia risulta corretto e convincente; la lettura del dispaccio ha la erre sonorissima. Meno a fuoco il Conte di Luna di Dalibor Jenis per le oscillazioni nel medio e l'intonazione a tratti al limite. Potente la Azucena di Anna Smirnova fino a sconfinare nel declamato verista, poco scura nel grave e improntata registicamente agli estremi stregoneschi sia nell'abbigliamento che nell'espressione (occhi sbarrati, bocca digrignata, capelli arruffati). Molto bravo Roberto Tagliavini: il suo Ferrando si impone nel racconto iniziale in grado di catturare l'attenzione del pubblico. Adeguati Elena Borin (Ines), Paolo Antognetti (Ruiz) e il coro preparato da Armando Tasso. Con loro il Vecchio zingaro di Victor Garcìa Sierra, il Messo di Cristiano Olivieri e il corpo di ballo diretto da Maria Grazia Garofoli.
Diversi posti vuoti negli anelli più alti, più affollati gli altri settori. Pubblico soddisfatto, molti applausi anche a scena aperta.