“Il trovatore” è opera con meno presenze nel cartellone scaligero di quanto ci si aspetti, solo tre allestimenti in oltre quarant'anni (1970, 1978, 2000), l'ultimo dei quali ripreso nella presente stagione dopo che inaugurò il 7 dicembre del nuovo millennio.
Lo spettacolo di Hugo De Ana (autore di regia, scene e costumi) è monumentale e imponente, ambientato dentro un'architettura gotica fiammeggiante ingigantita nelle pietre squadrate e nei dettagli delle colonnine tortili a fascio nelle aperture strombate percorse da fratture orizzontali e verticali. Le pietre sono consunte e annerite, come osservandole a secoli di distanza. Per il succedersi delle ambientazioni si utilizzano proiezioni su velatini che comunque lasciano visibili le scene retrostanti, sovrapponendo alle murature medioevali cascate e boschi, rocce scabre perse nelle nebbie, interni. Nel quarto atto una piramide di cadaveri in armatura aggrovigliati rappresenta un palazzo che, alzandosi, svela sotto una prigione. I costumi mantengono la datazione tardomedioevale ingigantendo elementi come le maniche degli uomini o i mantelli delle donne e concedendo suggestioni preraffaellite (le coriste) e klimtiane (il mantello di Azucena). La regia indugia su pose plastiche e movimenti rallentati (coreografie di Leda Lojodice) per dare maggiore risalto ai fatti dei protagonisti ma con il rischio di eccessive staticità e convenzionalità che non giovano al racconto, privandolo di tensione. Anche le luci di Marco Filibeck, pur belle e giuste, non escono dal prevedibile: azzurrate per il primo atto (la luna sul fondo quando in scena c'è il Conte di Luna) e aranciate per il secondo. Nel complesso un allestimento senza tempo, di buona maniera che piace al pubblico degli abbonati, evidentemente bisognosi di rassicuranti spettacoli tradizionali dopo alcune intelligenti attualizzazioni della stagione scorsa per il doppio bicentenario Verdi-Wagner.
Daniele Rustioni dirige con mano sicura, assicurando allo spettacolo quella tensione che la regia non garantisce. I tempi sono per lo più precisi, salvo qualche allargamento per consentire una maggiore espressività al canto (risultato non sempre raggiunto). In ogni caso il giovane Maestro ha ben supportato i cantanti, anche essendo meno a suo agio nei momenti di ripiego intimo. Si è particolarmente apprezzata la carica giovanile che ha portato l'orchestra a un suono certamente non manierato.
Marcelo Alvarez delinea un Manrico di grande e teatrale musicalità, forte di un registro centrale sontuoso e vellutato che rende trascurabili alcune (minime) forzature in acuto e soprattutto convincente per l'interpretazione che ha colto ogni sfumatura del ruolo con grandi sensibilità ed efficacia. Maria Agresta si conferma interprete verdiana di primissimo livello e fornisce una prova straordinaria per la bellezza e la freschezza del timbro, la facilità di un acuto mai forzato raggiunto con passaggio di registro fluido, la capacità di delineare una Leonora dolcissima e appassionatamente innamorata. Franco Vassallo è un Conte di Luna carente di nobiltà, dal canto piatto e avaro di colori evidente nel “Balen del suo sorriso”. Dell'Azucena di Ekaterina Semenchuk si sono apprezzati il registro centrale importante e ben timbrato e il grave, ampio e sonoro, a cui scende con facilità, ma gli acuti risultano meno morbidi. Autorevole e con linea di canto ferma Kwangchul Youn (Ferrando); appropriati Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz); con loro Ernesto Panariello (Vecchio zingaro) e Giuseppe Bellarca (Messo) e il coro ben preparato da Bruno Casoni.
Alcuni posti vuoti, pubblico tiepido durante la rappresentazione ma molti e soddisfatti applausi finali.