Complici le solite restrizioni dettate dal Covid 19, questo Trovatore verdiano, che doveva andare in scena al Teatro La Fenice tra giugno e luglio, lo si è dovuto ripensare radicalmente in forma semi scenica, in vista di queste due recite - due sole! - di primo ottobre. Lasciando così in magazzino un allestimento nato a Parma nel 2010 - e già visto nella sala veneziana nel 2011 e nel 2014 - con le sue scene ed i suoi costumi.
Le prime, sostituite da un palcoscenico dai ripiani in salita, pressoché vuoto, salvo il continuo ruotare di alcuni tavoli e d'una quantità di sgabelli. I secondi, da vestiti non firmati, la cui scelta ci pare quantomeno opinabile. Il coro si presenta vestito di anonimo nero, modernamente, con un fazzolettone rosso in testa a rappresentare la gente zingara. Passi. Passi pure Leonora con il suo elegante abito nero rutilante di pailletes.
Passi pure Azucena, anch'essa paludata di nero ma con una sciarpa rossa che scende sul fianco. Però il resto stride: il completino bianco di Manrico sa di spiaggia estiva, ed il suo rivale è tale e quale un debosciato viveur con mantello, frac, bastone in mano e cilindro in testa, pronto ad aspirare voluttuosamente una sigaretta in scena.
La regia fa quanto è possibile, il direttore ancor di più
Già, la regia. Lorenzo Mariani non è che possa far molto, in queste condizioni. Non ci aveva persuaso la sua visione registica di dieci anni fa, l'abbiamo scritto. Stavolta il compito però è arduo, il risultato persino migliore: vediamo scorrere il racconto senza inciampi, con rapidi cambi di scena a vista, ed ottenere dagli interpreti un'acconcia gestualità pur nel dovuto rispetto dei distanziamenti.
Quello che non poteva il direttore di scena, lo ha fatto il direttore d'orchestra, il bravo Daniele Callegari.
Il trovatore, si sa, è opera tenebrosa, convulsa, incalzante, al pari del Macbeth. Ma lui evita di calcare la mano, scansando il mito del Verdi virulento ed iperdrammatico, e procede con buonsenso e misura, realizzando con l'ottimo apporto degli strumentisti della Fenice una trama sonora opalescente e pulita.
Si avverte nella sua concertazione un savio equilibrio fra i momenti in cui servono intensità e fervore, e quelli in cui prevale l'estasi e l'abbandono lirico; gli uni e gli altri, ben calibrati. Come ben calcolati in orchestra sono taluni accorti rallentando, che servono a dare maggiore propulsione a quanto segue. Ma quello che più balza evidente è come il maestro milanese sappia essere buon pittore di colori, di emozioni, di atmosfere, sopperendo con l'immaginario musicale alla assenza d'una più consistente drammaturgia visiva.
Anche le voci fanno bene la loro parte
Anche il cast nel complesso funziona bene. Piace e convince il Manrico di Piero Pretti, che pur in fondo un po' timbricamente monocorde, tuttavia spicca per slancio e forza emotiva, limpida lucentezza negli acuti, incisività d'accenti, un fraseggio sempre eloquente. La parte di Elvira non riserva a Roberta Mantegna le insidie di una tessitura gravosa nei bassi, così che nel resto del pentagramma può disimpegnarsi agevolmente, con leggerezza d'emissione e facilità di modulazione, oltre che per il bel timbro patetico e una gradevole soavità d'espressione, che le fanno centrare il personaggio.
Luca Micheletti è un Conte di Luna imponente, dalla colonna di fiato munifica e dai tratti magniloquenti, pieno di fuoco e tormento. Sin troppo, però, scadendo sovente in un satanismo fuor di luogo, a scapito di quella nobiltà di carattere e morbidezza vocale propria dei ruoli baritonali verdiani.
Quanto a Veronica Simeoni, ancora una volta ci consegna un'Azucena superlativa, psicologicamente drammatica e vigorosa nelle introspettive allucinazioni; e vocalmente ben tornita, sia nella grande varietà di colori e di inflessioni, sia nella fedele applicazione delle indicazioni verdiane, quanto mai prodighe di prescrizioni agogiche nel fitto alternarsi di colorature.
Il basso Simon Lim pasticcia alquanto, all'inizio, con «Abbietta zingara», l'unica aria che lo spartito riserva a Ferrando, poi non fa più danni. Andrea Lia Rigotti è Ines, Dionigi D'Ostuni Ruiz, Emanuele Pedrini il vecchio zingaro, Giovanni Deriu il messo.