«Quello che maggiormente mi ha colpito de Il turco In Italia è la napoletanità dell’opera… Napoli con il rito del caffè, le banchine, il mare, il sole, le pensioni e la sua gente vitale», annota Federico Bortolani nelle note di regia del capolavoro rossiniano posto a chiusura della Stagione lirica del Teatro Comunale di Treviso. Ed in effetti nelle essenziali scene di Giulia Zucchetta, si intuisce subito d’essere in quel di Napoli, come prevede il libretto, guardando i tre alti e mobili divisori riportanti la piantina topografica delle sue più famose vie, gli stessi che poi rivoltati raffigurano le finestre dell’hotel dove alloggia Selim. E poi profusione di bauli e casse di legno, ed un mare di candide lenzuola stese al sole; il tutto, ben ravvivato dal light design di Roberto Gritti. Anche i vivacissimi costumi di Federica Miani ritraggono la colorita folla dei vicoli partenopei, mentre i personaggi principali vestono un po’ borghesemente – il lagnoso Geronio e lo svenevole Narciso rammentano le macchiette dei café-chantant, come il Ciccio Formaggio di Nino Taranto – oppure una pittoresca declinazione d’Oriente nel caso di Zaida, Selim, Albazar, e della Fiorilla risoluta ad imbarcarsi per la Turchia. Prosdocimo, il poeta in cerca di suggerimenti drammatici, resta neutrale: abbigliato modernamente, si affanna con il suo notes oppure con una macchina da scrivere che ora lo segue docile come un cagnolino, ora se ne va liberamente a spasso per la scena. E’ovviamente telecomandata, una tra le tante gradevoli trovate che punteggiano la dinamicissima regia di Federico Bortolani, tutta tesa ad esaltare tutta l’ironia e la comicità escogitata dal binomio Romani/Rossini – in bilico tra farsa, commedia borghese e satira di costume - senza mai appesantirla troppo. Tutta l’operazione, peraltro, ha visto la collaborazione della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, come nel caso de Il signor Bruschino del Teatro Malibran in scena a Venezia negli stessi giorni (recensione presente nel sito).
Curiosamente, comune alle due produzioni è anche il direttore, cioè quel Francesco Ommassini che essendo veneziano ‘doc’ non ha avuto certo difficoltà a seguire in contemporanea le due differenti produzioni. Intanto, cosa meritevolissima, ha riaperto i soliti, deprecabili tagli, onorando poi scrupolosamente le indicazioni agogiche rossiniane: cose di cui gli siamo pienamente riconoscenti. E poi ha diretto con scioltezza e mano sicura, facendo sentire meno pesanti i limiti dell’Orchestra Città di Ferrara - compagine invero non sempre inappuntabile - elargendo una concezione della partitura rossiniana luminosa, cristallina, ricca di mezze tinte, leggera nei momenti di abbandono lirico (come nel «Qual colpo! Ohimé» che segna il mesto ravvedimento di Fiorilla) riuscendo in poche parole a scovare sempre i colori e le espressioni giuste.
Il Turco del titolo è stavolta il croato Marko Mimica, giovane e promettente basso-baritono che ha in dote una voce ragguardevole – una di quelle che riempiono la sala - e un fraseggio intelligente. Ottimo attore, peraltro, che sa rendere a dovere la duplice personalità di Selim, viaggiatore malinconico e vanesio amante di Fiorilla, donna di voraci appetiti sessuali; qui l’avvenente Cinzia Forte, femminilissima e civettuola, padrona della parola, estremamente musicale, forte e sicura nelle agilità. La sua rivale è Cecilia Molinari, una Zaida abbastanza soddisfacente. Giulio Mastrototaro affronta il non facile personaggio di Geronio con buona perizia; evita di cadere in fastidiosi cachinni da istrione, preferendo condursi sul filo d’un canto duttile, quasi ovunque morbido, con un fraseggio fantasioso e ben governato. L’intrigante poeta, parte delegata in larga misura ad un arioso recitativo comico, sta nelle mani di quel gigante del repertorio buffo che risponde al nome di Lorenzo Regazzo: un artista per il quale ogni parola, ogni frase, ogni nota hanno un peso, un significato, un colore diverso. Messo il tutto insieme, e condito con un pizzico di ammiccante ironia, ecco a voi un Prosdocimo veramente strepitoso. Albazar è il ventiduenne tenore siciliano Pietro Adaini, timbro lucente e voce ben modulata nell’intera gamma, al quale è stata affidata la cavatina «Ah! Sarebbe troppo dolce» - solitamente omessa, graziosa anche se apocrifa – da lui affrontata con squisita spontaneità. L’altro tenore, il catalano David Alegret, consegna un Narciso squisitamente napoletano – un guappo dei Quartieri Spagnoli, ma tirato a lucido – offrendo all’ascolto un canto elegante e molto ben costruito, a compensare un colore vocale non proprio piacentissimo. Fondamentale la presenza del Coro Lirico Amadeus ben preparato da Giuliano Fracasso, al quale spetta anche il compito di recitare e riempire la scena.