Il turco in Italia è la meno conosciuta delle grandi opere comiche di Rossini, non compresa dal pubblico milanese nel 1814 nel suo particolare intreccio di piani narrativi, ma entrata stabilmente in repertorio grazie alla leggendaria produzione degli anni ’50 con Maria Callas diretta da Gianandrea Gavazzeni. Al Regio di Torino l’opera è in scena in un nuovo allestimento firmato da Christopher Alden coprodotto con i teatri dell’Opera di Digione e Varsavia e il Festival di Aix-en –Provence dove ha debuttato con successo nel luglio scorso.
La novità drammaturgica del Turco è dovuta al confondersi di realtà e finzione grazie all’introduzione di un poeta “pirandelliano” che cerca di scrivere un’opera buffa prendendo ispirazione dai drammi reali dei personaggi. Christopher Alden sfrutta (e talvolta esaspera) tale meccanismo mettendo in scena prima che inizi la musica il poeta seduto alla macchina da scrivere in cerca di un’ispirazione che non arriva. Altri non è che l’alter ego del regista e la rappresentazione stessa può essere considerata come una prova di assieme. Una tenda verde tirata in orizzontale lungo il palcoscenico (peraltro estremamente funzionale ai cambi scena a vista) crea una “mise en abîme” di teatro nel teatro, la tenda si scosta e appare la scena di Andrew Lieberman: una galleria piastrellata e spoglia illuminata da un tubo al neon con addossati alle pareti un divano a fiori demodé, delle sedie e un buffet con le bevande. Un ambiente di cui ci sfugge il senso, potrebbe essere una stazione di metropolitana, uno spazio temporaneamente adibito alle prove, un luogo di passaggio che evoca attesa o transizione. Onirico e surreale, come del resto l’entrata in scena del turco Selim a cavalcioni di una statua femminile rovesciata resa polena dal movimento ondivago del coro.
Il poeta, come si conviene a un “Deus ex machina”, anima i personaggi e le comparse, ne guida i movimenti come fossero marionette e scrive loro le battute, ma talvolta li abbandona al loro destino assalito da sogni e chimere e allora i personaggi cercano di cambiare ruolo e regole del gioco (fra tutti il povero marito che riscrive a macchina le sue arie accompagnandosi con un ticchettio di sillabati).
La locanda del secondo atto ci riporta indietro nel tempo, con la lambretta parcheggiata, i tavoli con le tovaglie cerate a fiori e le luminarie colorate da festa paesana mentre Selim e Geronio seduti a tavola si lanciano reciprocamente la bottiglia facendola scivolare sulla tovaglia ad accompagnare lo scambio di battute. Certo, c’è molto avanspettacolo nei movimenti della tenda, nel cono di luce che illumina i personaggi sul proscenio, nella luce che tinge la scena di rosa confetto, per non parlare degli uomini che si travestono a vista da donne con abiti sgargianti e copricapi di lamé per la mascherata degli equivoci. Ma d’altra parte il travestimento è un elemento centrale della commedia e i costumi di Kaye Voyce, colorati, compositi, di un kitsch insolito, accentuano la componente “burlesque” della mascherata con un tocco surreale. Più che i costumi infatti è l’atto del vestirsi, spogliarsi o travestirsi, ad accentuare confusione e smarrimento. Che i costumi siano brutti (come la scena del resto) è irrilevante.
Se pur si avverta una superficialità di fondo, lo spettacolo scorre e diverte. Nino Machaidze affronta il ruolo protagonista con grande disinvoltura scenica e vocale e fa di Fiorilla una primadonna che si atteggia a seduttrice: cambia a vista vestiti e parrucca per civetteria o per copione? La bella georgiana dagli occhi da gatta, un po’ Liz un po’ Angelina, è assolutamente credibile nel ruolo della bella civettuola ma convince anche per la virata tragica che imprime al personaggio nel pentimento finale (non a caso la sua dolente Squallida veste e bruna è il momento più riuscito per intensità e tenuta, mentre passa in secondo piano Non si dà follia maggiore dagli acuti un po’ metallici). Selim è affidato al talento di Carlo Lepore che convince fin dalle prime battute per la voce calda e rotonda che dà giusta vena sensuale al personaggio ma se ne apprezza anche fraseggio e dizione. Divertente, senza però essere caricaturale, il Don Geronio di Paolo Bordogna che conferisce al marito maturo un’umanità venata di malinconia con un canto morbido e ben proiettato. Edgardo Rocha, chiamato in sostituzione di un indisposto Antonino Siragusa, ha risolto le insidiose colorature previste da Narciso con chiara voce tenorile: buona l’immedesimazione nel ruolo del cicisbeo qua trasformato in innamorato psicopatico e un po’ maniaco con l’impermeabile. Il poeta Prosdocimo è affidato all’arte declamatoria di Simone Del Savio che ci piace, oltre che per la voce musicale e brunita, per l’aria svagata e divertita. Samantha Korbey è una Zaida corretta ma un po’ anonima. All’Albazar di Enrico Iviglia viene concessa l’aria del sorbetto spesso tagliata, perché, come dice il poeta rivolgendosi al pubblico, “questo non è di Rossini”.
Il giovane Daniele Rustioni dirige con particolare slancio ed evidente divertimento. Nell’ouverture si avvertono qualche effetto e pesantezza di troppo ma i tempi sono giusti e c’è sintonia fra l’andamento musicale e il corrispettivo scenico in un divertente contrappunto dove drammaturgia e partitura sembrano crearsi sotto i nostri occhi. Bene come sempre la prova dell’Orchestra del Teatro Regio, come pure il Coro preparato da Claudio Fenoglio.
Applausi calorosi alla fine da parte del pubblico, forse più rivolti ai cantanti che all’allestimento.