Accolto un po' tiepidamente al Rossini Opera Festival 2016, Il turco in Italia di Davide Livermore è approdato ora al Comunale di Bologna, teatro solito ad ospitare in seconda battuta talune produzioni pesaresi; e dove mi pare abbia incontrato ben migliore accoglienza. Sono cambiati pressoché tutti gli interpreti, ovviamente, e sul podio presiede un direttore di maggior esperienza e polso rispetto a Speranza Scapucci: ed è Christopher Franklin - chiamato a sostituire il compianto Alberto Zedda, scomparso improvvisamente – il quale questa partitura tra l'altro ben la conosce avendola da poco diretta per il circuito OperaLombardia. Guarda caso, con la regia di Alfonso Antoniozzi che qui ritroviamo nei panni di Prosdocimo.
Davide Livermore – regista e scenografo – porta l'esile trama storia in un set di Cinecittà, calandoci fra le figure di un film felliniano: evidentissimi sono infatti i richiami al grande cineasta riminese, sopra tutto nei variopinti e rutilanti costumi di Gianluca Falaschi. Avendo sullo sfondo le nude pareti di uno studio cinematografico, le variopinte figure del coro sono riprese pari pari da I clowns, Selim è abbigliato come Alberto Sordi ne Lo sceicco bianco, Prosdocimo ad un certo punto ci appare dietro la macchina da ripresa ricordandoci Mastroianni nelle vesti di Guido Anselmi, il regista in crisi d'ispirazione in 8½; e Don Narciso diviene un pretino invadente e piagnone, che pare l'untuoso accompagnatore del falso monsignore ne Il bidone. Viaggia tutto liscio e con effervescente freschezza, questo spettacolo dove tutto è sempre in perenne movimento, e che Livermore intride di sagace ironia. E nel quale piacevoli gags ed i continui ammiccamenti – con poche battute in più, il Poeta diventa non solo osservatore, ma anche motore della vicenda - tengono sempre a fuoco la sottile satira di costume che attraversa il geniale libretto del Romani. E pure le luci studiate da Nicolas Bovey, al pari delle videoproiezioni dello studio D-Wok, contribuiscono a ricreare per lo spettatore l'atmosfera surreale e stralunata delle grandi pellicole felliniane.
Non sempre capita di trovare sulla scena un cast affiatatissimo, come quello radunato dal Comunale di Bologna per questo Turco in Italia: sapida commedia di carattere, che poggia più sulla collettiva capacità di recitare e sulla reciproca interazione dei personaggi, che sulla singola valenza vocale. E qui gli interpreti paiono tutti elettrizzati dalla regia di Livermore, ed impegnati a fondo in un impeccabile gioco di squadra.
Grande musicalità, salda presenza scenica, dominio della parola, buon sillabato e sciolto fraseggio, li ritroviamo tanto nell'arguto ed ammiccante Selim di Simone Alberghini - padrone della situazione sin dal suo ingresso - quanto nel variegato e piacione Geronio che con la solita bravura e versatilità sa donarci Nicola Alaimo. Quanto ad Alfonso Antoniozzi, nel suo incontenibile Prosdocimo ci aggiunge anche un pizzico di agrezza maligna, un certo voyeurismo compiaciuto che non guasta affatto. Il soprano armeno Hasmik Torosyan tratteggia una Fiorilla tecnicamente impeccabile, valicando indenne gli insidiosi scogli dell'aria «Qual colpo! Ohimé!». Tuttavia non si trova in lei la piccante e languida malizia nella scena del caffè, né il miele amaro del duetto con Geronio, né mai in definitiva quella verve civettuola e svagata – vedi la scriteriata giocondità di «Se il zefiro si posa» - che il suo personaggio pretende assolutamente. Maxim Mironov è un Narciso un tantino acidulo nel timbro, però si mostra convinto nel ruolo, è facile agli acuti e corretto nel fraseggio; il mezzosoprano giapponese Aya Wakizono è una godibilissima e spiritosa Zaida, benché l'aggraziata sua figuretta sia mortificata dal curioso aspetto di donna barbuta assegnatole dalla regia; Alessandro Luciano è un simpatico Albazar en travesti, abbigliato come una vecchia zingara.
Resta da dire della leggerezza con la quale regge la sua bacchetta Christopher Franklin. Leggerezza ma anche una giusta quantità di spirito beffardo e giocoso: ingredienti che, uniti alla vaghezza dei colori, alla precisa scelta di tempi e alla pulsante energia degli accompagnamenti – con lui anche i vorticosi concertati, retti con massima chiarezza, si stagliano nitidi – portano al bel risultato d'una direzione carica di fiorente vitalità e ricca di tante belle sfumature. E giusta dose di merito, in questo, la dobbiamo pure alle buone prestazioni sia dell'Orchestra, sia del Coro del teatro bolognese.
(foto Rocco Casaluci)