Il viaggio a Buenos Aires. Work in Regress di Amanita Muskaria, pubblicato sulla rivista "Dialog" nel novembre del 2001, ha debuttato nel dicembre dello stesso anno al Jaracz Theatre di Łódź. E' il monologo di Walerka, una donna anziana che sta perdendo la memoria e, di conseguenza, il controllo della propria vita, della percezione della realtà e della capacità di usare il linguaggio.
Dietro lo pseudonimo di Amanita Muskaria si celano due giovani sorelle: Gabriela Muskała, l'interprete di Walerka, e Monika Muskała.
Lo spettacolo ha avuto diverse riprese, in patria, nel novembre del 2005 al Teatr Dramatyczny di Varsavia e all'estero (quest'anno ha partecipato al Fringe Festival di Edimburgo) ed è stato pubblicato anche in Austria. Gabriela Muskała è stata premiata come migliore attrice ai festival di Kalisz, Wrocław e Bydgoszcz, ed ha ricevuto il premio indetto dal Ministero della Cultura Polacco. Unanimi le motivazioni di tanti premi: l'attrice è riuscita, nonostante la sua giovane età, a dare una rappresentazione credibile del dramma dell'invecchiamento, grazie alla curiosità e alla sensibilità con cui si avvicina al personaggio intravedendone, anche con piglio ironico, dato lo scarto anagrafico che la distanzia dal personaggio che va a interpretare, la cifra universale dell'umana esistenza che si cela dietro il dramma di Walerka.
Dopo il grande successo ottenuto in tutta Europa Il viaggio a Buenos Aires. Work in Regress arriva in Italia, nella rassena Trend dedicata alla drammaturgia Polacca, per la regia di Carlo Emilio Lerici e vede come interprete Francesca Bianco che ci regala una prova d'attrice altissima. La sua Walerka è sempre sull'orlo di un precipizio: mnemonico, esistenziale, emotivo, e l'attrice attinge da un'energia apparentemente infinita tutta la verve interpretativa che il testo le chiede di mettere in gioco. Una prova dura dalla quale Francesca Bianco esce a testa alta, altissima.
Ma non tutto funziona in questa messa in scena.
Non convince la lettura drammaturgica con cui Lerici approccia il testo a cominciare dalla scelta dell'interprete. Fare interpretare Walerka a una donna invece che a una ragazza cambia il significato della pièce cancellandone di fatto l'ironia. Laddove la giovinezza dell'interprete originale pone il dramma di Walerka sotto una luce di straniante ironia, giocando fra lo scarto anagrafico dell'attrice e quello del personaggio, lo stesso testo, carico com'è di dramma, interpretato da una donna adulta, perde in ironia e si carica di un'ulteriore drammaticità rischiando di sfociare nella retorica della sofferenza venendo preso troppo maledettamente alla lettera. Tutto è drammaticamente definitivo nella messinscena italiana. Come se non bastasse, a ribadire la serietà di quanto si va raccontando, ci si mettono le musiche di Francesco Verdinelli, invadenti e ridondanti (a coprire a volte la voce stessa di Walerka) che ribadiscono il concetto di ...mesta drammaticità senza che ce ne sia affatto bisogno visto che l'attrice ce la fa egregiamente da sola... Dell'ironia e della lievità, oltre che della dolorosa drammaticità con cui questa pièce è conosciuta all'estero, nell'allestimento di Lerici non rimane niente. Uno spostamento semantico notevole che rischia di banalizzarne il portato drammatico.
Non c'è empatia tra Walerka e il pubblico che si ritrae dalla protagonista la cui petulanza involontaria, data da una condizione di disagio oggettivo, finisce per essere vista come petulanza del personaggio, e il dramma universale diventa un dramma individuale (poverina è matta).
Ma forse la petulanza di cui andiamo parlando non è quella del personaggio quanto quella della regia che ha voluto sottolineare, con la musica, con le luci, e anche con l'enfasi della recitazione (cui Francesca Bianco si è dovuta, suo malgrado, piegare) il dramma raccontato da un testo che necessitava più un levare che un mettere.
Per cui, usciti da teatro, se lo spettatore porta a casa, come succede, un'emozione, lo deve esclusivamente alla grandezza di Francesca Bianco, non certo a quella di un testo che, così enfatizzato, rischia di risultare privo di emozioni vissute e di trasformarsi in un puro esercizio calligrafico.
Visto il
10-11-2009
al
Belli
di Roma
(RM)