Si scrive “Volpone” ma si legge “imbroglione”. La pièce di Ben Jonson ha più di 4 secoli alle spalle, eppure mantiene ancora un contatto con il presente e, duole dirlo, se le cose non dovessero cambiare anche con l’immediato futuro. Astuzia, cupidigia, sprezzo dell’onore, del pudore, della comune decenza sono infatti brutte abitudini dure a morire e seppur in modalità diverse, più raffinate e subdole rispetto al passato, sporcano i comportamenti umani come una nota sgraziata in una melodia romantica.
Lo scaltro e cinico nobile veneziano è aiutato nei suoi raggiri dal ‘parassita’ Mosca, avido e astuto come e più del suo padrone. Tuttavia, se i giochetti sono da un lato comprensibili perché smascherano l’ipocrisia e l’avidità di chi gli sta attorno, dall’altro non gli rendono di certo giustizia: Volpone, illuminato da una luce negativa, gode neanche troppo discretamente della sua capacità di farsi beffa degli avversari e di tenerli in pugno, appesi ad un filo… quello di un’eredità bramata come se non vi fosse nient’altro a cui ambire e che, tra i vari tira e molla, si farà a lungo attendere.
Sviluppo e conclusione sono lasciati allo spettatore, che magari arriva in sala conoscendo già i dettagli della trama: si tratta di un classico del teatro, al pari di altre opere del periodo elisabettiano. Tuttavia, quella freschezza che l’impianto narrativo continua a mantenere a distanza di anni dalla prima stesura, certamente per via dell’analisi particolareggiata di vizi e virtù dell’uomo, appare smorzata e anche un po’ mortificata - senza ragione effettiva, per giunta - in questa versione. Quelle che si immaginano essere state scelte registiche di dare un tocco di moderna comicità all’opera banalizzano un racconto che, per la sola raffinatezza degli intrecci, sta in piedi benissimo da solo: seppur la performance complessiva non sia affatto disprezzabile, convince poco però il Mosca che improvvisamente parla pugliese, scimmiottando il Banfi-personaggio; lo stesso Tedeschi, che solitamente padroneggia palco e script con nonchalance e rara eleganza, sottolinea alcuni momenti con espressioni fin troppo colorite o volgari, e anche quando si avvale della mimica facciale ricorda talvolta i tentativi, spesso dozzinali, di alcuni cabarettisti che fanno ridere ben poco. L’eloquio non manca, e il copione stesso sostiene l’opera in tal senso, ma sembra che il ricorso ai soli dialoghi, di per se’ taglienti ed efficaci, non sia stato ritenuto sufficiente alla rappresentazione. Piccolo ma simpatico il ruolo di Celia e bravi anche gli interpreti degli aspiranti eredi i quali, nonostante tutto, contribuiscono a conservare una certa piacevolezza nello spettacolo.