Un teatro che oggi voglia dirsi civile dovrebbe fare prima o poi i conti con la struttura intima delle nostre società occidentali per affrontarne gli aspetti fondativi, i meccanismi decisionali invisibili, le logiche di esclusione, l’intrinseca disuguaglianza che le struttura.
Non ci aspettiamo che questo compito sia svolto tout court dalla televisione, strumento per lo più consolatorio e dunque reazionario, né dal cinema delle grandi produzioni, che quasi mai conosce l’eresia; spetta dunque al teatro libero e indipendente la complicata responsabilità di raccontare le contraddizioni e i costi sociali del benessere, di smascherare l'illusione che si possa generare una prosperità illimitata senza pagarla con la carne viva delle persone.
È questo uno dei temi portanti di Imitation of life, disturbante e poetico lavoro del Proton Theatre, compagnia di punta della scena ungherese, con la durissima scrittura di Kata Wéber e Soma Boronkay, e l’eclettica regia di Kornél Mundruczò.
La marginalità umana, l’esistenza di chi vive alla periferia dei diritti, sono il presupposto su cui agisce il protagonista innominato dell’opera: l’odio, terribile invenzione di controllo sociale e strumento perfetto nelle mani spietate del potere grazie al suo dispositivo basato su fattori identitari eletti in modo arbitrario e irrazionale a marca segnaletica del nemico.
Siamo davvero liberi?
Con una messa in scena a tratti onirica e straniata, a tratti iperrealista, questo lavoro si apre e si chiude sul tema della sopraffazione, dell'odio motivato appunto dall'identità, che resta poi come sibilante sottotraccia in tutto lo sviluppo della drammaturgia.
In apertura una donna tzigana affronta un liquidatore – lo sentiamo in voce ma non lo vediamo, perentorio e invisibile come un potere kafkiano – che le comunica l'imminente sfratto dal misero monolocale in cui vive, nonostante la salute precaria e la cattiva condizione economica: uno sfratto immediato, che fa parte del piano di riqualificazione del quartiere per creare edilizia residenziale.
Allo spettatore tocca chiedersi dove sia in quel momento lo Stato se si lascia surrogare da un potere privato così disumano ed estraneo al patto sociale. Eppure, ricorda l’anziana signora, gli zingari sono nati per essere felici. Poco dopo la donna muore; ed è una morte metaforica, la definitiva espulsione dal corpo sociale di una scoria indesiderata. È l’annientamento di chi ostacola la produzione del profitto, la sopraffazione necessaria a un disegno per cui contano più le perdite che i perdenti.
Anche più tragica è la discriminazione che chiude lo spettacolo, e che induce a rileggere all’indietro tutta la messa in scena fino al punto d’inizio.
Sul finale infatti si allude ad un fatto di cronaca realmente accaduto a Budapest nel 2005, quando su un autobus un adolescente ferì con una spada un bambino a lui sconosciuto: un gesto incomprensibile, che fu spiegato solo quando si venne a sapere che i due minori erano entrambi rom.
L’odio etnico non risparmia neppure chi è incluso suo malgrado nel gruppo discriminato, come se un’irresistibile pressione occulta costringesse a scegliere fra il ruolo di vittima e quello di aggressore. Un diabolico corto circuito dagli effetti apparentemente irragionevoli, conseguenze tuttavia probabili di un’opprimente e diffusa cultura dell’esclusione.
Ed è questo un fenomeno più ampio di quanto si potrebbe immaginare: basta accendere la tv per imbattersi in donne che promuovono istanze maschiliste, o in persone omosessuali che si esprimono con linguaggio omofobico.
Dunque, si chiede il regista sul programma di sala, siamo davvero liberi di scegliere la nostra vita?
Fortunae rota volvitur
Da un punto di vista espressivo la messa in scena mescola tecniche e stili – in primo luogo l’azione dal vivo, poi il cinema, la videocamera in presa diretta, il testo sms –; e sparge segni fecondissimi, contraddittori, esplosivi, per mostrare una realtà difficile da catturare con un solo tratto o da interpretare con una sola chiave. Ecco allora un ritratto misterioso alla parete, un giradischi, tre lavatrici, un soffitto decorato a rilievo, una vetrata troppo elegante; e d’improvviso una luce esterna che infiamma la scena e la trasforma in un quadro di Vermeer.
Potentissima, memorabile l’invenzione collocata esattamente a metà dello spettacolo a fare da spartiacque fra un prima e un dopo: la casa abbandonata inizia lentamente a girare su sé stessa, affidando all’inerzia del movimento la caduta degli oggetti, che si accatastano ora sulle pareti e poi sul pavimento senza una logica.
L’arredo della camera, che fino a quel momento ha segnalato la presenza quotidiana della vita, è presto ridotto all’ammasso insignificante dei suoi costituenti, sparsi in un luogo senza più vita; come una medievale ruota della fortuna il giro della stanza ha lasciato alle sue spalle un destino concluso ed apre alla possibilità di un destino ulteriore. Fra quelle macerie primordiali ci sarà ancora un’esistenza fragile, con nuove ferite e nuove occasioni di marginalità.
La recitazione
Rigorosa e misurata la prova degli attori, sia nella recitazione teatrale sia in quella cinematografica; di particolare forza l’apertura con l’assolo di Lili Monori, contrappuntata da una voce fuori campo, sapiente nell’affidare alle sfumature minime del volto il crescente disagio nel dialogo col suo temibile interlocutore, senza mai abbandonarsi a soluzioni espressive banali, né alle maschere convenzionali di certo cinema di largo consumo.
Ora, la riflessione estetica su questo spettacolo non può essere separata dal contesto culturale in cui questo teatro nasce: quell’Ungheria governata ormai da oltre un decennio dalla destra nazionalista, dove lo Stato ha potere di controllo sull’informazione e sulla cultura.
L’azione culturale del Proton Theatre è dunque più necessaria che altrove, perché si colloca al bordo della parola possibile e con la forza del gesto poetico preme per espandere l’orizzonte della riflessione e della critica. Una duplice linea di resistenza culturale, che mantiene aperti spazi di pensiero e di osservazione, e che restituisce al teatro la sua più significativa – e forse autentica – funzione all’interno della comunità civile.