Prosa
INDOVINA CHI VIENE A CENA?

Sara' che gli attori microfon…

Sara' che gli attori microfon…
Sara' che gli attori microfonati a teatro sono irreali e l'acustica gioca brutti scherzi, sarà che era la seconda sera dal debutto nazionale, sarà che il cast si deve affiatare sulla scena, sarà il timore reverenziale verso la versione in film, sarà l'emozione, sarà sarà quel che sarà, ma da questo "Indovina chi viene a cena?" ci si aspettava francamente qualcosa in più. Patrick Rossi Gastaldi, con l'adattamento di Mario Scaletta, riporta in scena l'indimenticabile commedia del 1968 di William Arthur Rose, con Stanley Kramer alla regia. Il film, una vera pietra miliare della cinematografia, ebbe successo anche per il momento storico in cui fu girato, il 1968: tematica ai tempi attualissima e di sicuro impatto sociale che oggi ha perso mordente e lascia per lo più indifferenti. Poi, riproporre i successi cinematografici a teatro raramente è una scelta vincente. Magari lo è al botteghino (il "nome" richiama parecchio), ma non lo è di critica. La spada di Damocle del grande schermo pende affilatissima e il paragone è impietoso. Ma, quando ha successo, ne ha molto, moltissimo, e cast e regista vengono catapultati sul podio con onori e tributi. Non è il caso di questo cast, nonostante i nomi di richiamo. A partire dalla regia: Patrick Rossi Gastaldi, ottimo attore e regista (bellissimi alcuni suoi musical e il suo cabaret d'epoca con Gloria Sapio) che da sempre sguazza nel teatro contemporaneo e brillante, con questo allestimento sembra si sia perso per strada. I tempi comici non funzionano bene , il ritmo è poco avvolgente, quasi soap-operesco e anche alcune scelte registiche sono discutibili. Perchè, se dichiara di voler attualizzare la commedia, sceglie come "neri" attori stranieri di colore con un accento straniero fortissimo? Non era meglio un attore italiano (di colore) con un normale accento italiano? Una Sylvie Lubamba, per esempio? Il punto attorno a cui ruota la commedia è la pigmentazione della pelle, non l'estraneità linguistica. Un americano come il "nero" John Prentice, nato in America, parla inglese normalmente, come un bianco. Mostrarci invece attori (neri) con un palese accento straniero, non aiuta a capire la tematica ma, anzi, estranea ancora di più: dov'è allora l'integrazione razziale propugnata dall'autore? Questo non è attualizzare, è allontanare. L'attore che interpreta John (Timothy Martin) è tutto preso dalla dizione e dal ricordarsi la battuta in italiano, non dal ruolo. Ed è ovvio che la pièce ne risente. E poi, parliamoci chiaro, Martin non è nemmeno lontanamente Sidney Poitier, per quanto sia un eccellente tenore e anche apprezzato in "The Full Monty", diretto da Proietti. Emanuela Trovato (la figlia) è fresca e attiva, ma un pò troppo adolescenziale nell'intepretazione; dà al personaggio un'aria tra il dispettoso e lo svampito, come se sposarsi un medico nero fosse uguale a mettersi un piercing all'ombelico. Un pò sottotono Ivana Monti, mentre convince il settantenne Gianfranco D'Angelo, che conferma ancora una volta la sua bravura e la sua attenzione coi tempi teatrali. Espressivo, vivace ma mai invadente, D'Angelo è il mattatore della scena e non per il nome che porta. Plauso allo scenografo, Alessandro Chiti, il quale ha saputo realizzare un contesto moderno e familiare, nei toni del bianco e del nero (ovviamente!). Poco frizzante ma comunque gradito dal pubblico in sala: a ogni modo, al mercoledì sera, è mille volte meglio dell'Isola dei Famosi. Milano Teatro Manzoni 11 ottobre 2006
Visto il
al Ghione di Roma (RM)