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DIARIO PERPLESSO DI UN INCERTO

Innanzitutto va sgomberato il…

Innanzitutto va sgomberato il…
Innanzitutto va sgomberato il campo da ogni equivoco e subito chiarito che nell’assistere e giudicare “ARDENTE PAZIENZA, ovvero IL POSTINO DI NERUDA” non si deve minimamente cedere alla seppur ghiotta tentazione di paragonare lo spettacolo al celebre film di Troisi ispirato al medesimo romanzo. Il grande attore-regista napoletano fece infatti un lavoro incentrato principalmente ad adattare ambienti e personaggi alle sue personali corde interpretative, lavoro che, seppur mirabile, tradì non poco il testo originale, anticipando storicamente l’azione di quasi vent’anni e collocandola geograficamente in una non meglio identificata ma a lui più vicina isola del sud italiano. Memè Perlini, regista dello spettacolo in oggetto, ha invece inteso rappresentare la fedele messinscena di quanto ha scritto Skarmeta, lasciando l’ambientazione nella cilena Isla Nigra nel periodo in cui Neruda vi soggiornò, cioè tra il 1969 ed il 1973, anno del golpe ad opera di Pinochet, che portò all’uccisione del presidente Salvador Allende, mentre consumata da un mare incurabile si spegneva anche la vita del poeta, da poco insignito dal premio Nobel. L’operazione risulta gradevole al pubblico, ma lo spettacolo presenta troppe lacune per arrivare ad essere emozionante come il testo suggerirebbe. Infatti da una parte Perlini abbonda in trovate registiche come quella, ad esempio, di far accendere o spegnere le luci di scena da interruttori azionati dagli stessi attori, o il fare continuamente ricorso alle voci fuori campo registrate, o, ancora, far adottare lo straneamento interpretativo nella declamazioni delle poesie “nerudiane” di cui è disseminato lo spettacolo, mentre dall’altra ci sembra abbia abbandonato quasi la direzione degli attori, lasciandoli un po’ a sé stessi, col risultato di farli apparire non sempre a loro agio e spesso facendo trasparire la loro eccessiva napoletanità sia nell’espressione vocale che in quella gestuale. Va da sé che il mestiere e l’arte di Antonio Casagrande (Neruda) gli consentono di trovare facilmente l’empatia col pubblico, soprattutto nei tratti più malinconici del suo personaggio, e che Cloris Brosca (a nostro avviso la migliore in scena) si rivela briosa e divertente nell’efficace caratterizzazione di Rosa, pur se in alcuni momenti eccede in un isterismo che un’attenta direzione avrebbe facilmente corretto. A pagare però lo scotto maggiore dell’incuria di cui sopra è il giovane Antonio Spadaro, che pur avendo la fisicità e la freschezza giusta per ricoprire il ruolo dell’adolescente Mario, purtroppo appare acerbo nell’esprimere la dolcezza, la passione, la sensualità, il dolore, l’entusiasmo, e tutte le variegate essenze che fanno parte della personalità del postino e del suo poetico percorso di crescita da fanciullo ad uomo. Completano il cast la delicatamente sensuale Cristina Giachero (Beatriz), e Giuseppe Rossi Borghesano nel ruolo di una guardia. Se gradevole, anche se forse un po’ troppo ingombrante, appare la scenografia, indovinatissima è la felice scelta delle musiche di scena, che unisce ai tanghi e le bossanova, le voce di icone pop quali Frank Sinatra, Julio Iglesias e Rina Ketty. Sul finale, che vede Mario arrestato dalle guardie di Pinochet, interpretate dalle stesse Brosca e Giachero (chissà poi perché in questo caso la regia ha invece evitato la voce fuori campo), il pubblico ha regalato calorosi applausi agli interpreti chiamandoli più volte nei saluti.
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